Gli aquiloni
di Gaza
di Ettore Masina
Vi sono momenti in cui la storia e il
vangelo si incrociano e pare si
confermino a vicenda. Il 28 dicembre di ogni anno la Chiesa rilegge la
pagina del Nuovo Testamento in cui si racconta della strage di bambini di
Betlemme ordinata da Erode. La Chiesa definisce quei piccoli con il nome
di Santi Martiri Innocenti. In realtà si tratta di un racconto midrashico,
cioè simbolico: nessun testo storico registra un avvenimento del genere
nella Palestina di quel tempo. Adesso questo avvenimento e il nome che lo
descrive sono diventati realtà: proprio a partire dagli ultimi giorni
del
dicembre scorso e proprio in Palestina, decine e decine di bambini
vengono uccisi, non da sgherri assatanati ma da un esercito fra i più
potenti della Terra con generali, bandiere, ferrea disciplina, minuziosi
piani di battaglia.
Perché Santi e Martiri quei bambini di Betlemme coetanei del Signore?
La
liturgia risponde con una formula che a me pare stupenda: martiri e dunque
santi perché non loquendo sed moriendo confessi sunt, perché
non con
parole ma con la morte hanno testimoniato il Cristo. Così, una volta
di
più, la riflessione evangelica coglie il nesso intimo fra il Salvatore
e i
più poveri dei poveri: il loro destino, la loro storia ignorata dai
libri,
persino la storia effimera (di pochi giorni, mesi o anni) dei piccini
uccisi dalla violenza degli adulti sono storia sacra, inscritta nel
mistero della croce. Qualcuno mi ha detto tempo fa che nelle icone
ortodosse dell'Epifania la culla di Gesù bambino ha la forma di una
bara.
(Ma le notizie che arrivano da Gaza mentre scrivo, il 6 gennaio, dicono
che la popolazione non riesce più a seppellire i suoi morti).
Non con le parole ma con la morte testimoniano la realtà tutti i piccoli
schiantati dalla nostra follìa o dalla nostra inerzia. Siano i bambini
violati dai "turisti del sesso" o quelli schiacciati dalle fatiche
di
certi lavori "minorili", le creaturine vietnamite che nascono deformi
a
causa dei defolianti disseminati dagli americani durante la guerra; o
siano i ragazzini-soldati di certe aree africane o quelli uccisi,
mutilati o psichicamente straziati dai conflitti, come i piccoli afghani e
congolesi e sudanesi, quelli israeliani assassinati dai terroristi o,
adesso, quelli massacrati dall'esercito israeliano, le vittime infantili
del nostro tempo testimoniano che il male distende le sue ali di tenebra
in tutte le epoche e i luoghi, e può insediarsi nel cuore di ogni uomo.
I
bambini violati e uccisi accompagnano con le loro ombre il nostro cammino
e vanificano con i loro lamenti o i loro insanguinati silenzi la nostra
pretesa di essere autori di una civiltà sempre più "umana":
giusta, cioè,
libera, generosa. E tenera.
Credo fermamente che nessuno di noi possa "chiamarsi fuori" da queste
realtà planetarie, che legami più o meno visibili ci saldino
ai mali del
nostro tempo e che non sia possibile uscire dalla nostra inevitabile
condizione di carnefici (o, almeno, di favoreggiatori di carnefici) se non
cercando di cogliere in tutta la sua valenza le nostre responsabilità.
Credo, cioè, che innanzi tutto il nostro dovere non sia soltanto di
piangere le piccole vittime ma di conoscere le condizioni storiche che le
hanno crocifisse, per vedere se non sia possibile da parte nostra qualche
intervento per un mutamento della realtà. Senza questa ricerca di
informazioni è come se ci rifiutassimo di vedere il volto di quei bambini,
di conoscerne il nome, di ascoltarne il lamento. Questa mancanza di
informazioni emerge più che mai, oggi, davanti a Gaza. Mi sembra
terribile: su un dramma planetario che da più di sessant'anni insanguina
una Terra santa a tre religioni monoteiste, dunque a miliardi di persone,
la gente ha idee confuse o addirittura non ne ha.
Gaza, la strage di tanti bambini (e dei loro genitori), la nostra pretesa
di neutralità o addirittura la nostra compassione pesata al bilancino
per
l'una e l'altra parte in lotta, sono infatti una tragedia alimentata dalla
disinformazione o dalla manipolazione dell'informazione. Se i palestinesi,
i loro diritti violati, la libertà che gli viene negata sono così
spesso
ignorati da noi, cioè condannati, da mezzo secolo, all'insignificanza,
è
perché l'opinione pubblica internazionale è stata fortemente
condizionata
dalla propaganda israeliana. È ovviamente impossibile esaminare
dettagliatamente come e perché, ma chi, come me, segue con attenzione,
da
cinquant'anni la vicenda medio-orientale sa bene che è un discorso
necessario per uscire da una situazione di profonda ingiustizia: e che si
possono porre, al riguardo, alcune considerazioni incontrovertibili.
Bisogna cominciare da lontano: dopo la prima guerra mondiale, che aveva
disgregato l'impero ottomano, le cosiddette Grandi Potenze ridisegnarono
a loro piacimento, con sprezzante cinismo, la carta geopolitica dell'area.
Con tutta la violenza dell'ideologia colonialista, considerarono primitivi
e indegni di piena libertà i popoli arabi: imposero loro monarchi feudali
o regimi corrotti, servili nei confronti di Londra e di Parigi.
Fu in quel tempo che si cominciò a progettare, su pressione del movimento
sionista, dei suoi amici altolocati e della vergogna dei pogrom europei,
uno stato ebraico da erigere nelle antiche terre dei Patriarchi e dei
Profeti. Subito dopo la seconda guerra mondiale, il progetto fu tradotto
in realtà. Fu la realizzazione di un sogno per gli ebrei, ma una terribile
sciagura per gli arabi che abitavano da secoli la Palestina. Su di loro si
abbatté come un maglio la cattiva coscienza dell'Europa e degli Stati
Uniti
per non avere efficacemente impedito il genocidio ebraico: il nuovo stato
fu insediato non già in una regione semi-deserta ("Una terra senza
popolo
per un popolo senza terra"). Le guerre dei regimi arabi contro lo Stato
ebraico rinforzarono questa supremazia mediatica: i farneticanti proclami
del
loro odio, la loro incapacità di promuovere l'idea di uno stato pluralista
e laico anziché di due stati creati con drammatici spostamenti della
popolazione locale, rinsaldarono nell'opinione pubblica internazionale
l'immagine di un piccolo Israele permanentemente minacciato da una enorme
valanga di nemici e dunque costretto a un duro esercizio della forza. Ben
pochi si accorsero, nel passare degli anni, che questa immagine era sempre
meno autentica perché non teneva conto dei crescenti aiuti e garanzie
prestati dagli Stati Uniti allo stato ebraico, tali da creare ormai una
realtà inattaccabile dai suoi vicini: uno stato che possiede il quinto
esercito della Terra per potenza di fuoco e un rilevante armamento
nucleare Chi ha indicato questa evidente realtà, sostenendo che, ormai
garantita la sicurezza di Israele, era giunto il momento di chiedergli un
maggiore e sincero assenso a una pace che garantisse giustizia ai palestinesi,
è stato sempre messo a tacere con l'accusa di antiebraismo: vorresti
forse una nuova Shoah? Tre generazioni di israeliani si sono ormai succedute
dalla fondazione del nuovo Stato, accade persino che i nonagenari scampati
al genocidio lamentino che il "loro" governo lesini aiuti alla loro
vecchiaia,
la caratteristica di Israele come "stato-rifugio" per gli ebrei
in diaspora è
ormai una romantica illusione, ma l'accusa di antigiudaismo viene ancora
rivolta a chi critica i governanti di Israele. Qualche volta l'accusa è
di
"antisemitismo": i filo-israeliani meno colti non sanno neppure
che anche
i palestinesi sono semiti.
Le sconfitte arabe hanno consegnato a Israele, di fatto, l'intera area
destinata, secondo gli illusori progetti dell'ONU, a uno stato palestinese.
Questo avvenimento epocale ha stravolto gli stessi fondamenti ideali dello
stato ebraico. Nella sua dichiarazione di Indipendenza stava scritto: "Lo
Stato di Israele si dedicherà allo sviluppo di questo paese per il
bene di
tutti i suoi cittadini; sarà fondato sui principi di libertà,
giustizia e pace,
e sarà guidato dalla visione dei profeti di Israele; garantirà
pieni e eguali
diritti, sociali e politici, a tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalle
differenze di religione, di razza o di sesso; tutelerà la libertà
di religione,
di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura". Di fatto, invece,
Israele,
quasi sospinta da un vento malvagio, si è trasformata in una potenza
brutalmente
coloniale che opprime con continue violazioni dei diritti umani un popolo
in
crescente disperazione. Centinaia di risoluzioni dell'ONU contro questi eccessi
sono finiti nei cestini della carta straccia premurosamente forniti dagli
Stati
Uniti, grazie al loro potere di veto.
Hanno vita durissima i pacifisti israeliani, coraggiosi, creativi, incessanti
costruttori di ponti fra i due popoli che il cinismo dei governanti distrugge
demolendo ogni speranza di pace.
Nello stato ebraico sono presenti, distruttivamente, forze politiche che sognano
di costringere gli arabi a un esodo definitivo dalla loro terra, altre, più
numerose, che premono per la costruzione di un regime permanente di apartheid
affidato all'esercito perché lo indurisca di quando in quando affinché
i
palestinesi "non creino problemi ", altre ancora disponibili alla
creazione
di uno stato arabo ma a pelle di leopardo: bantustan collegati fra loro da
esili corridoi. Queste forze eversive si sono sempre schierate (esplicitamente
o sotterraneamente) contro ogni piano di pace.
Certamente, al riguardo, non mancano responsabilità palestinesi. Vergognosamente
traditi. Gli psicologi israeliani denunziano l'insorgenza di nevrosi collettive.
Vi sono segni di insensibilità crescente. Eccone uno, di oggi: "Piombo
fuso" è
un giocattolo donato ai bambini israeliani nella recente festa di Hanukkah.
I generali hanno dato questo nome (Operazione Piombo fuso) ai piani dell'
offensiva contro Gaza. I generali sanno bene che metà della popolazione
di
Gaza ha meno di 15 anni. E sanno che Gaza e la Striscia, con 2500 persone
per
chilometro quadrato, sono la più popolosa area della Terra. Bombardarla
dal
cielo e dal mare, come si sta facendo, o invaderla per combattere casa per
casa significa mettere in atto un macello che ricorda certe imprese naziste.
Scrivo queste cose non per esecrare il popolo di Israele, al quale auguro
invece di tutto cuore di diventare propulsore di pace e di benessere, ma
perché sono convinto che molti non le sappiano, e che, invece, la
diffusione della verità sia la strada necessaria alla giustizia. Ma
interessa la verità ai mass-media italiani? Voglio raccontare un episodio
al riguardo. Nel 1991 ero presidente del Comitato della Camera per i
diritti umani. L'agenzia dell'ONU per i profughi mi invitò a portare
una
delegazione di parlamentari in visita ai campi in cui si accalcavano
decine di migliaia di palestinesi. Fu un'esperienza drammatica: vedemmo un
popolo che ci sembrò allo stremo, angariato da anni in mille modi,
portato
al furore da una congerie di leggi, decreti, bandi militari che ne
impedivano ogni crescita e libertà. Ricordo come questa mancanza di
diritto fosse evidente a Gaza, immensa metropoli di poverissima gente. Gli
occupanti vi applicavano leggi israeliane, egiziane e persino del mandato
britannico. Tornati a Roma presentammo la nostra relazione al presidente
della Commissione Esteri, Flaminio Piccoli. Egli rilevò che nonostante
la
diversità politica (la delegazione "andava" da Democrazia
Proletaria al MSI),
il documento era unitario e la documentazione era importante. Decise di
convocare una conferenza stampa. I giornalisti accreditati a Montecitorio
sono più di 300. Non uno (non uno, avete capito bene) venne ad ascoltarci.
Milioni e milioni di italiani (la grande maggioranza) hanno come esclusiva
fonte di informazione il TG1. Da anni questa testata affida il notiziario
sull'area medio-orientale a un giornalista, Claudio Pagliara, che è
certamente assai meno obiettivo deii giornalisti israeliani. Per esempio,
continua a ripetere che l'offensiva israeliana è dovuta israeliana
al
fatto che Hamas aveva rotto la tregua stabilita con Israele. In realtà
Hamas ha deciso di non rinnovare la tregua scaduta, motivando questa
decisione con l'inasprimento del blocco alla Striscia e il bombardamento
del 4 novembre, che ha causato la morte di 6 miliziani. In questo modo -
ha scritto la stampa israeliana - si è "innescato un nuovo ciclo
di
pericolosa, anche se controllata, violenza, caratterizzata da occasionali
colpi ed incursioni da parte di Israele e da corrispondenti lanci di razzi
e spari da parte palestinese" (Daniel Levy, Haaretz, 19 dicembre").
Tzahal, l'esercito israeliano, non consente ai giornalisti di entrare
nella Striscia e dunque le notizie che ci arrivano dai luoghi della
battaglia sono tutto fuorché obiettive; ad aumentare questo squilibrio,
il
giornalista del TG1 è prodigo di servizi sui danni che i razzi di Hamas
procurano ad alcune città israeliane. Ora questi lanci sono un'iniziativa
criminale ma non sono, purtroppo, una prerogativa di Hamas. Pagliara ha
sempre taciuto che da anni - e anche durante i tentativi di trattative di
pace - Tzahal lancia missili sui territori occupati, dichiarando che si
tratta di "esecuzioni a distanza" di supposti criminali. Questi
missili
hanno provocato ormai centinaia e centinaia di "danni collaterali"
palestinesi. I missili sono intrinsecamente diversi dai razzi?
Tanto meno il giornalista italiano ha espresso i dubbi dei suoi colleghi
israeliani sulle reali ragioni dell'attacco a Gaza. Per esempio: "Fonti
dell'establishment della Difesa hanno dichiarato che il ministro della
difesa Ehud Barak ha ordinato alle Forze Aeree Israeliane di prepararsi
per l'operazione più di sei mesi fa, anche mentre Israele iniziava
a
negoziare un accordo per il cessate il fuoco con Hamas". (Barak Ravid,
Operation "Cast Lead": Israeli Air Force strike followed months
of
planning, Haaretz, 27 dicembre 2008).
Infine l'inviato del TG1 non si è mai dilungato sulle sofferenze inflitte
alla popolazione di Gaza dall'assedio israeliano sottolineate da altri
suoi colleghi: "L'assedio di Gaza ha distrutto per un'intera generazione
la possibilità di vivere una vita degna di essere vissuta" (Tom
Seghev,
Haaretz 29 dicembre 2008); e anche "Mancano l'acqua, l'elettricità,
i
medicinali e il personale sanitario è spesso costretto alla drammatica
scelta di quali feriti curare e quali abbandonare a se stessi, (New York
Times, 1 gennaio 2009).
Concludo questo tragico cammino per le strade insanguinate della Palestina
e di Israele facendo mie le parole con le quali Pietro Ingrao ha
commentato la strage in atto a Gaza: "Sono convinto che non è
con quella
violenza iniqua che Israele può tutelare il suo domani. Anzi credo,
temo
che con questa aggressione infausta essa seminerà nuovo alimento per
gli
estremisti disperati di Hamas". Nel 1991 io credetti di vedere nascere
nei
campi profughi una nuova leva di kamikaze. Ricordo gli occhi di un
quindicenne a Deishah mentre mi raccontava del pianto disperato di una sua
sorellina quando, a un chek-point un soldato le aveva sventrato una
bambola, convinto che in essa si celasse dell'esplosivo. A Gaza ci sono
più di 750 mila bambini. Ricordo con il cuore che piange gli aquiloni
che
essi levavano in mezzo al fango dell'inverno in cui li vidi e che mi
sembrarono speranze levate verso il cielo. Quanto odio sta fermentando nel
cuore di quei piccini, accanto alla paura? Non solo le lacrime degli orfani
ma anche il rancore muto, e forse ancor più desolato, degli orfani
"psicologici":
quelli che si sentono traditi da un padre che sembra non sapere, non volere
difenderli, lui stesso terrorizzato, affamato. Che ricco raccolto per gli
estremisti, per la violenza del loro odio che a un bambino può sembrare
forza.
I sedicenti amici di Israele non lo capiscono?
La pace è una bambina che corre verso un rifugio in cui sentirsi
finalmente al sicuro. Palestinese o israeliana, che importa? Il suo grido
dovrebbe strapparci alla nostra inerzia, che forse non è tale ma disperata
sensazione di inutilità. Ma non dobbiamo cedere al pessimismo della
ragione. Come cittadini, come cristiani (quelli di noi che osano dirsi
tali) dobbiamo trovare modi per far sentire ai nostri governanti che la
loro prudenza ci sembra viltà. Nella triste decadenza dei partiti la
nostra solidarietà deve trovare nuove forme. Internet ne offre e non
dobbiamo ritenerle troppo piccole, troppo deboli. Tra il poco e il nulla
c'è un abisso.
Ai diplomatici Benedetto XVI ha detto che per vincere "l'inaudita
violenza" dell'attacco a Gaza è forse necessario un ricambio generazionale
dei governi, dunque un grande coraggio. Io ricordo quello di Paolo VI che,
per riportare lo sguardo della Chiesa sul mistero del Cristo, non si
lasciò fermare dalla situazione militare della Terra Santa, ma sfidò
la
prudenza dei diplomatici annunziando con semplicità che lui sarebbe
comunque partito. Davanti a lui, almeno per qualche ora, si aprì una
meravigliosa strada che io ricordo di avere percorso con Eugenio Montale:
era un viottolo che zigzagava fra crateri di bombe nella no men's land, la
terra di nessuno fra la Gerusalemme della Legione Araba e quella di
Tzahal. Per qualche ora la Città Santa tornò una, la Bella dei
Profeti,
del Vangelo e del Corano.
E però noi non possiamo richiedere coraggio soltanto ai governanti.
Decine
di riservisti israeliani in questo momento si stanno trasformando in
refuznik, obiettori di coscienza, che per questo saranno incarcerati. Non
vogliamo assomigliargli almeno un poco? Davvero ci terrorizza la
probabilità di essere definiti "amici di Hamas"?