Interventi
   
                
   
RIFLESSIONI di una "nordica" che vive "al sud"
 
Donatella Barazzetti

  

  

Prologo 

Quando il treno che da Cosenza mi portava a Padova alcuni giorni fa ha attraversato il ponte sul Po a Ferrara, ho provato una sorta di brivido. Stavo entrando in territorio "nemico". Nemico?! La Padania, Bossi...Ma si è trattato di qualcosa di più profondo. La sensazione di entrare in un mondo non familiare, che poteva essermi nemico. Malgrado la mia cadenza settentrionale e il mio aspetto celtico. Era un intreccio di molte cose, e, paradossalmente, la più importante non era l' estraneità o la rabbia o il rifiuto di posizioni delirati, di appartenenze "etnico-razziste". Era un senso di timore. Come se dietro il mio nordico e insospettabile aspetto, qualcuno potesse scorgere i segni di una impronta inquietante, l'impronta di una diversa appartenenza, segnata dallo stigma sociale. In cosa consista questa impronta non è chiaro neanche a me. Una impronta che in certi contesti scatena timore. Forse è un riflesso che torna dal passato, rovesciato però da un perverso gioco di specchi. Perchè io conosco troppo bene il senso di quel profondo ostracismo, di quel rifiuto pietrificato che attraversava l'animo della maggioranza dei torinesi, negli anni '50 e '60, lapidariamente riassunto nei cartelli "Non si affitta a meridionali". 

Il mio sud e il mio nord.... 

Come è possibile che un fanfarone e una assurda campagna di stampa abbiano lasciato dentro di me questa sensazione? 

Come è possibile che la ricchezza che deriva dalla molteplicità delle esperienze fatte, possa trasformarsi in una appartenenza cristallizzata ? 

Basta veramente così poco a costruire l'alterità?  

In che cosa consiste il frammento di sud che penso di avere dentro? 

Perché collego il sud, che per me è ricchezza interiore, all'alterità? 

Nord come centro del discorso, sud come alterità senza parola: 

uno stereotipo duro a morire, una rappresentazione profondamente interiorizzata che viene dalle pieghe del passato, o una realtà ancora viva e operante? 

Il mio Sud comincia al Nord 

"Un paese vuol dire non essere soli 
una piazza, due case, gli amici, un caffè..." 

Non sono sicura che siano davvero queste le parole di una canzone, che nella confusione dei ricordi colloco nel calderone degli anni 60/70. Scritta da qualcuno che connetto alle Langhe. Due versi sbucati dalla memoria. E che spesso mi sono cantata in quei terribili momenti di naufragio, quando il confine stesso del corpo sembra dissolversi nella dimensione dello smarrimento e della solitudine.  

Un paese vuol dire non essere soli. E' questa idea di "paese" che mi porto dentro, come nocciolo fondativo. Posso vivere ovunque, perché ovunque ricreo il paese.  

Un paese, quel paese specifico: i miei primi tre anni di vita, sfollata per via della guerra, e poi, tutte le estati fino a vent'anni. La casa, la mia unica vera casa. Densa di una storia che non conoscevo, ma a cui appartenevo, come dicevano i quadri degli antenati appesi alle pareti, così fisicamente simili a me. Il paese con i suoi odori; la capacità di girarne mentalmente ogni angolo, saperne i colori, il variare della luce e delle stagioni, le campane del mezzogiorno, limite invalicabile per il rientro a casa, quelle della sera, straripanti di malinconia. Ogni rumore, un significato.  

Per lunghi anni, avere dentro un paese ha voluto soprattutto dire la struggente nostalgia di quel luogo specifico. Poi col tempo, è diventato una forma di relazione col mondo, basata sul ricrearne ovunque i fondamenti: lasciare che gli odori di un luogo, gli spazi, la luce dell'aria, i colori, i rumori, gli amici ti entrino dentro. Non essere soli; costringere i luoghi a parlarti una lingua familiare. Non sarò mai "nomade". Solo una sedentaria in transito. 

Lotta Continua è stata un paese, anzi ha trasformato in paese il mondo. Il femminismo è stato un paese. La Calabria è stata soprattutto questo, moltiplicato a dismisura dal fatto di costruire un paese in luoghi dove già tutto "è paese". 

Potrei radicarmi ovunque. Questo ha i suoi vantaggi; ma anche i suoi risvolti pericolosi. 

Avere dentro un paese di fatto è un modo della conoscenza; è un modello di relazione con il mondo e con l'altro da sé. Un modello io credo particolarmente diffuso, almeno fino alla nostra generazione. Il modo con cui migliaia e migliaia di persone hanno costruito il proprio percorso di "esperienza del mondo" a partire dalla familiarità con il contesto in cui vivevano. A partire dal riproporsi di relazioni note, dal riferirsi a spazi conosciuti e percorribili mentalmente, in cui era sempre possibile collocare persone e cose. Il quartiere, il paese, la cittadina....  

L'opposto, la negazione del cittadino blasé.  

Anche Torino era un paese per torinesi. La "torinesità". Valori condivisi, ideologia del lavoro, l'ordine geometrico delle strade e degli animi, il ripiegamento su se stessi, le rigide appartenenze di classe..... 

Non era però il mio paese. Torino mi escludeva. In realtà non ero veramente torinese, ma un ibrido incrocio di famiglie inurbate. Come una sorta di Heidi costretta a vivere in città, il mio paese era tra i monti dell'Ossola.  

Il riferimento era diverso, ma il modello era lo stesso. 

Un modello che anche quando si apre al mondo tende comunque a circoscrivere, a tracciare un confine tra ciò che è familiare e ciò che non lo è. Un confine che persiste anche quando viene continuamente allargato, continuamente esteso. Una dimensione che ingloba, un "dentro" comunque diverso dal "fuori". 

Le scienze sociali hanno profuso milioni di parole, composto migliaia di modelli dicotomici per dare veste scientifica a tutto questo. Gemeinschaft Gesellschaft, appartenenza cittadinanza, tradizione modernità, campagna città, collettivo individuale, personale impersonale, sud. nord ...potrei continuare per n tendente all'infinito. 

Modelli appunto; di comportamenti e di relazioni sociali che la teoria separa ma l'esperienza concreta spesso intreccia inestricabilmente. Intrecci dimenticati o sottovalutati che forse sarebbe utile ripensare, quando i segni delle appartenenze si ripresentano dirompenti, e ci si interroga stupiti, come se fossero archeologie fuori della storia e non l'eco dei rapporti che migliaia, milioni di esseri umani intrecciano con il mondo. La terribile ambiguità del paese.... 

Per quanto mi riguarda tutto questo è strettamente connesso con il mio rapporto nord sud. Non ci avevo mai veramente pensato fino al fatidico viaggio a Padova, di cui parlavo precedentemente e al senso di timore provato entrando in una terra divenuta improvvisamente nemica. "Come se dietro il mio nordico e insospettabile aspetto, qualcuno potesse scorgere i segni di una impronta inquietante, l'impronta di una diversa appartenenza, segnata dallo stigma sociale" 

Il conflitto tra due opposte disparità: da un lato un disvalore, quello da me inconsciamente attribuito al sud, come appartenenza segnata da uno stigma sociale. E dall'altro una ipervalorizzazione, quella di un nord a cui evidentemente riconosco il diritto alla stigmatizzazione. In verità è un riconoscimento molto complesso, che razionalmete rifiuto, che mi fa schifo e orrore. Ma che il mio senso di timore in realtà legittima.  

Come è possibile?! 

Come è possibile che il luogo a cui è legata la mia vita attuale, in cui sono accaduti gli avvenimenti che più profondamente hanno segnato la mia esistenza, in cui ho costruito gran parte della mia identità e dei miei rapporti più importanti assuma una connotazione di disvalore?  

Ho sempre pensato che la svalutazione dell'altro fosse in gran parte attribuibile a non conoscenza. Che atteggiamenti di razzismo o di disprezzo spesso nascessero da una immagine dell'"altro" come sconosciuto e alieno. Fondamentale dunque la relazione, la conoscenza approfondita e diretta. Evidentemente non è così. O quanto meno la relazione è una risposta importantissima, ma parziale. Come chi, durante il fascismo e il nazismo, ha auto a cuore le sorti del "suo ebreo", ma non quelle degli ebrei.  

Costruire un paese ha dato senso e positività a tutto ciò che nel paese veniva inglobato, ma non ha inciso evidentemente sulla dimensione di alterità e di distanza che segnava tutto quanto restava fuori. 

In questo senso il mio sud comincia al nord. Perché al nord comincia il mio senso del paese e soprattutto perché al nord comincia il mio "disvalore" verso il sud. 

Una constatazione pesante per chi si è spesso rappresentata come cittadina del mondo! per chi si è pensata immune dai germi del razzismo. 

Io che non mi sento né del sud né del nord, che avrei molte difficoltà a definire una mia specifica appartenenza, sono in realtà attraversata da una contraddizione che in ultima analisi attribuisce un carattere di inferiorità ad una parte di mondo rispetto ad un'altra.  

Il mio sud comincia in quei terribili anni 50 a Torino. E il riemergere di quel segno dimenticato, oggi mi riconsegna, malgrado tutto, ad una appartenenza che rifiuto, l'appartenenza ad una parte del mondo che pensa di essere legittimata a dominare.  

 

   
                
   
                
   
                
   
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