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A proposito di nostalgia e ricordi 
di Simona Tavella

  

È già da un po’ che si sente parlare di sviluppo sostenibile: di piani di intervento per i paesi non industrializzati che non implichino contraccolpi negativi sull’equilibrio ambientale e culturale della nazione coinvolta. 

Sembrano piccole cose, a tutta prima. Per esempio in alcuni paesi del Sud America, farfalle di specie molto rare e pregiate vengono "allevate" e, sotto forma di crisalide, esportate in tutto il mondo. Piccole cose, dicevo: ma, quando penso al Sud ed alle donne del Sud mi tornano in mente iniziative di questo tipo in cui si utilizza in modo intelligente quello che si ha, ciò che si è. 

Che significa sviluppo compatibile per noi? Finora ci abbiamo provato; abbiamo visto cooperative di donne che esportano merletti in USA o lavori al tombolo in Germania: donne padrone del loro tempo, non lavoratrici a cottimo. Giustissimo, ma non credo che basti. Abbiamo visto asili, cooperative di servizio, ludoteche gestite da donne. Perfetto, ma ci dobbiamo accontentare? O questo potrebbe significare chiudersi nel bozzolo del nostro essere sud del sud? Forse abbiamo permesso che la nostalgia in noi prenda il sopravvento, che certi saperi antichi si trasformino in diffidenza per il nuovo. 

La scommessa, qui ed ora è per noi smetterla di commiserarci per quello che siamo, per il posto che ricopriamo: non si tratta penso, di sforzarsi di diventare nord, o di imitarlo anche a costo di prenderne a prestito gli aspetti peggiori. Noi donne siamo il sud ed è da questo che dobbiamo partire. 

Esiste il sud della geografia, il sud della struttura sociale ed il sud di ogni singola persona. Cerco di spiegarmi: se penso al mio sud personale mi torna in mente mia nonna che la sera, al crepuscolo, mi racconta le cose della sua memoria o mia madre che pensa al suo futuro e piange perché "se tuo padre si ammala a me la spesa chi me la fa?". Se penso al sud della società penso a Bossi. Sì, proprio al senatur, che rappresenta l’astiosa diffidenza verso tutto ciò che non conosce (quindi verso moltissime cose). Se penso al sud geografico ho in mente un punto di vista: che ci può influenzare, certo. Ma che resta, che deve restare quello che è: un punto di vista, un modo per orientarsi. Forse - per favore, amiche mie, non lapidatemi - essere donne al sud può apparire più semplice; dopotutto non siamo da sempre e per voce unanime le vestali che muovendo la culla dominano il mondo? Il sud del sud, appunto: questo siamo, in questo ci riconoscono valore. Perfetto. Questo ruolo eterno ci dimostra se non altro che le donne del Sud e quelle del Nord hanno sicuramente almeno una cosa in comune. Partiamo da questo. Non smettiamo di confrontarci con la maternità. Perché la maternità rifiutata, subita, accettata, sperata, reinventata, questo confronto-incontro-scontro tra noi la nostra mamma e la Madre resta per tutte noi un punto centrale (con buona pace delle Cyberfemministe). Chiediamoci come possiamo continuare a fare figli - se e quando li vogliamo - o a non farne più se è il caso chiediamoci quali idee siamo pronte a trasmettere col nostro latte, cosa vuol dire l’abusatissimo termine di maternità rivisitata. 

Se il nord è il super io razionale ed il sud il ricordo di quello che siamo stati (ricordo, memoria, non nostalgia!) il risultato, a mio avviso, è che le donne devono portare avanti il valore della solidarietà attiva. Non è mia intenzione rimettere sul tappeto il concetto della "sorellanza" femminista: sto parlando di possibili gruppi di donne che gestiscono servizi e/o informazioni (benissimo un sito Internet) ma penso anche a gruppi organizzati all’interno dei consultori per aiutare, per esempio, le immigrate clandestine. Però impariamo a sganciarci dal volontariato, per favore, organizziamo cooperative piuttosto. il lavoro è un valore e va pagato! 

 

   
                
   
                
   
                
   
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