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Valorizzazione del margine

In questa sede, in uno dei nostri incontri, abbiamo detto una cosa ovvia e cioè che ognuno sta sempre più a sud di qualcun altro. Però se dovessimo rivedere questa affermazione dalla prospettiva del nostro convegno, non è più così ovvia, specialmente quando si parla, come nel nostro caso del margine. Nel margine, un posizionamento di tipo geografico è implicito, guardate caso, il luogo in questione è il sud, i vari sud. Nella valorizzazione del margine, sono impliciti i temi relativi alla nostalgia, al conflitto identitario inteso non solo all’interno di uno stesso gruppo ma addirittura dell’individuo stesso, alla appartenenza sia essa etnica che culturale ed è implicito il tema del razzismo e con razzismo non voglio intendere solo quello classico (che peraltro stenta a morire) ma soprattutto quello che Ugo Fabietti chiama "il neorazzismo culturalista e differenzialista che si è impadronito di alcuni segmenti del discorso relativista per legittimare la propria ideologia di esclusione." Un posizionamento quindi, che non è soltanto quello geografico, ma culturale.

Tutta questa premessa per dire quanto io mi sento più vicina al titolo "Donne a sud più a sud" poiché do un po’ per scontato il fatto che, se si è a sud, è implicito che si interroghi dal sud.

La valorizzazione del margine è una delle tematiche, come è scritto nella proposta di convegno quella tematica che ci dà una occasione veramente eccezionale sarebbe a dire: pensare il sud a partire dal sud senza più quella imposizione dicotomica nord/sud. Può sembrare un paradosso, ma essere al margine è una di quelli posizionamenti socio-geografici dove il concetto di identità è molto sentito, forse addirittura più forte assieme con quello della dignità. Quelli al margine, quelli dei sud sono molto consci del loro posizionamento che non è quasi mai un luogo comodo.

La mia posizione sarebbe a dire, da emigrata ed il sentirmi al margine sinceramente non mi lascia uno spazio nostalgico poiché dal mio punto di vista la nostalgia richiama una cosa, un oggetto, un pensiero, un sentimento o un luogo che si senta di aver perso o almeno in parte. Per me nostalgia un sentimento molto vicino alla felicità magari non proprio persa ma obliata. Allo stesso tempo però questo essere al margine, se da un lato, costantemente mi ricorda la posizione e la condizione di ex-tranea, di extra-comunitaria, di ex-clusa, da l’altro mi dà quella presunzione di pensarmi per certi versi privilegiata come osservatrice "poco o per niente partecipante" non solo di quello che può capitarmi, ma come osservatrice di quanto al margine non sta perché sembra ch’io stia a distanza, come dire di sicurezza, per meglio scrutare. E poi per meglio dire, raccontare, interrogare e denunciare, quando questo avviene significa che un po’ ci si è spostati dal margine. Quando dico, racconto, interrogo, denuncio e magari propongo, vuole che mi trovo in una posizione già un po’ meno emarginata per puntare il dito sui fatti e persone che concorrono a creare emarginano. È stato veramente illuminante per me leggere l’Elogio del margine di Bell Hooks secondo la quale "il margine è il solo spazio di radicale apertura". Da nostri incontri e particolarmente dal nostro convegno spero che un messaggio e impegno forte sia proprio questo, cioè riconoscere le due posizioni della marginalità che al mio avviso sono:

1) Essere al margine perché è una condizione imposta, le condizioni sociali lo impongono. Stare al margine e essere anche invisibili perché non si appartiene neanche al corpo principale pur essendo "datori di voto".

2) Essere al margine come scelta di dialogo e cioè posizionarsi, per usare una metafora televisiva, sintonizzarsi sulla frequenza del vero emarginato il che non significa l’identificarsi poiché è impossibile.

La valorizzazione del margine intesa innanzitutto come la presa di parola dalla parte di chi sta al margine per esprimere il proprio essere, per fare sentire quella "voce spezzata" di cui parla Bell Hooks. Parafrasando ancora l’africana-americana, quella voce che quando l’ascoltiamo è rotta ed è impossibile non cogliere il dolore che ci sta dietro - le parole della sofferenza -, quei suoni che spesso nessuno vuole udire." I problemi sono anche di un altro ordine e cioè come fare in modo che quelle voce vengano udite? La valorizzazione del margine sarà un passo ulteriore solo quando avremo saputo udire e capire che l’esposizione di un disagio non è soltanto un lamento. Se la valorizzazione del margine è il salto di qualità, un problem solving, un problema politico sarebbe a dire la risoluzione (o tentativo di risoluzione) dei quesiti posti, l’udire "la voce spezzata" mi si permetta può essere anche un problema educativo, può essere quell’atteggiamento che ci sposta da una posizione e/o atteggiamento etnocentrico. Un ulteriore atto di onestà mi spinge a dire che il tono che ho usata fino a questo attimo per introdurre le mie considerazioni mi sembra un troppo "cristiana" è come se lo avessi detto più per toccare i "cuori" e meno "l’intelletto". In realtà dell’intelletto si tratta. L’esposizione dei contenuti delle parole di una "voce spezzato" è l’esposizione di fatti concreti. Si tratta si una obbiettiva presa di coscienza e quindi dell’ammissione del fatto che esistono delle condizioni "laicamente" inaccettabili per una società civile.

Come fare in modo che quelle voce vengano udite?

"Avrei il coraggio di parlare all’oppresso e all’oppressore con la stessa voce?" - Si chiede Bell Hooks - Certamente. La lingua da sempre è stata un elemento fondamentale per la comunicazione, anche per la non-comunicazione. Se è vero che la lingua è un luogo di "scontro", un luogo di "lotta" l’intelligenza richiede che sia soprattutto un luogo di "mediazione" e quindi di "incontro". Per quanto riguarda invece il rapporto tra il margine (il caso degli emigrati) e il centro (comunità ospitante) allo scopo della valorizzazione del margine, la lingua si rivela essere un elemento insostituibile per quanto possa a volte rivelarsi incommensurabile. Proprio qui ha inizio quel percorso intelligente che porterà i mediatori all’assemblaggio di quanto concorrerà alla valorizzazione del margine. Valorizzare un margine porta allo spostamento dello stesso verso un centro.

Occorre considerare un’altra cosa e cioè che la non ricerca di dialogo costringe il margine alla costruzione di un centro proprio e possiamo immaginare quali possano essere le conseguenze, nei casi estremi di emarginazione. La demarginazione del margine nella sua cattiva accezione (opera pia, assimilazione) rappresenta la negazione dell’essere dell’altro (lo stesso concetto di alterità) come portatore di valori condivisibili o non e comunque da rispettare. Nel discorso sulla valorizzazione del margine, credo che si debba per forza parlare di integrazione sia essa culturale (per quanto riguarda gli imigrati) che sociale (per quanto riguarda gli autoctoni).

 

   
                
   
                
   
                
   
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