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Spostamenti nomadici | Nadia Gambilongo |
Ho iniziato a lavorare a questo numero in una zona di transito, era forse l'aeroporto di Bologna;
avevo incominciato a leggere, e poi divorato tutto di
un fiato, "Soggetto nomade" di Rosi
Braidotti1, compagna di viaggio ideale, i suoi scritti mi
accompagnano da tempo nei miei spostamenti.
Ho scritto a pezzi e a più riprese questo lavoro, in momenti diversi, molti dei quali in situazioni di distacco dal mio luogo e di passaggio verso altre destinazioni, diretta verso luoghi di altre donne. In questi momenti di spostamento, di passaggio, mi sembra di vedere con maggiore lucidità dentro di me, di capire meglio i luoghi che attraverso, di cogliere di più il senso di questo faticoso lavoro di rete che vado tessendo da un po' di tempo. In questi momenti, di sospensione dal quotidiano, tra una partenza ed un arrivo, mi sento serena, mi pare che il livello di consapevolezza dentro di me si accresca, come una sintonia con il mondo, quasi smettessi di guardarlo senza vederlo. Questa sensazione di agio, di apparente lucidità mi rafforza e potenzia di fatto il mio agire. Nei luoghi di transito, di passaggio verso altre destinazioni, riflettere su ciò che si è lasciato e su quello verso cui si va, è cosa facile: si tratta di stati della mente in cui ci si può trovare nude davanti a se stesse, ed allora, è il corpo che ci parla. In questi momenti è possibile vedere non soltanto le oppressioni quotidiane ma anche visualizzare gli ostacoli. Quando sono in Calabria, nel mio luogo, vengo quasi completamente assorbita dalle mille difficoltà del vivere a Sud, difficoltà che negli ultimi tempi con l'aggravarsi della crisi politica ed economica, che l'Italia sta attraversando, si sono come centuplicate. Vivere in questi luoghi dove l'esperienza di sentirsi sopraffatti da un contesto che resiste incredibilmente ad ogni mutamento, è diventata una dimensione quotidiana a cui a volte ho difficoltà a far fronte. Quello che con dura fatica in dieci anni si è tentato di costruire, qui nel cosentino, e mi riferisco alla creazione di un'area di terziario avanzato, indirizzato allo sviluppo di strutture innovative per la formazione e la telematica, attualmente ha la consistenza di castelli di sabbia su una riva di un mare in tempesta; e per ora il bollettino non riporta niente di buono, e domani chissà?! E questo `chissà' che non governi, in cui il tuo agire sembra ininfluente o comunque inefficace, distrugge le coscienze, lasciando tracce indelebili. Ma come le canne battute dal vento che si piegano, si sfibrano ma non si spezzano così mi pare, a volte, di resistere a queste mille intemperie e di sentirmi più forte dopo ogni bufera. Un anno vissuto pericolosamente questo in Calabria. Non voglio qui raccontarvi di come sia stato possibile assistere all'avanzare inesorabile della crisi che sta portando alla messa in liquidazione, alla scissione e ridimensionamento di strutture come il Consorzio per l'Università a Distanza, il Consorzio per la Ricerca ed Applicazione di Informatica, l'Intersiel e di altre aziende più o meno legate all'università, rare realtà avanzate sul territorio calabrese e di rilevanza nazionale. Su come questo sia potuto accadere si scriveranno fiumi di parole, sulla fine dell'Intervento Straordinario nel Mezzogiorno, sul taglio della Spesa Pubblica nella Ricerca, ed anch'io in altre sedi dirò la mia, ma vi voglio dar conto dell'arretramento nella creazione di spazi pubblici di donne che intendevano, qui in Calabria, connettersi con il resto del mondo. Sembra, infatti, che stia svanendo il progetto relativo alla creazione di un Dipartimento Donna all'interno del CUD, legato com'è al destino della struttura; mentre diventa più difficile l'avvio, in questo contesto, di un Centro Editoriale Multimediale delle Donne; ma su questo progetto abbiamo intrapreso iniziative sia a livello locale che internazionale, che ci consentono di sentirci più tranquille sul suo futuro. La creazione di questi spazi avrebbe consentito a molte donne calabresi di valorizzare il proprio lavoro, la propria esperienza e soprattutto di farla sedimentare nel tempo, lasciando traccia del proprio passaggio, dei nessi, dei collegamenti con altri luoghi, con altre donne. Senza il supporto di queste strutture tutto questo sarà come sempre molto difficile e gran parte del lavoro fatto andrà irrimediabilmente perso. E' sull'onda di questa forte emozione che scrivo, sorretta come sono dal lavoro di rete con altre donne, qui e in altri luoghi, ed è questo che mi ha consentito di trovare sempre nuove energie per me e i miei progetti, e soprattutto per far fronte alle difficoltà. Dare conto del luogo da cui si parla, delle emozioni che ci attraversano, fa parte del percorso intrapreso; e spiega in parte il ritardo con cui usciamo con questo numero. Il lavoro iniziato con Mediterranea2 nasceva dal desiderio di partire da me, dal mio Sud, per esprimere una soggettività segnata, condizionata dall'essere nata e aver scelto di vivere a Sud. `Segnata', `condizionata' rimandano spesso a visioni, letture di esperienze in qualche modo negative; ma il progetto di Mediterranea era quello di fare emergere la complessità di questa esperienza, del vivere in questi luoghi, che non è solo riconducibile ad un giudizio di valore: positivo se legato ad una visione romantica del vivere a Sud, oppure negativo per le cose che più comunemente vengono enfatizzate e di cui vi ho appena riferito. Era, ed è tuttora, un desiderio di far emergere la propria esperienza anche nella sua contraddittorietà e parzialità, per confrontarla con altre esperienze anch'esse parziali, segnate dall'essere radicate o meglio posizionate lì in quel luogo e non in un altro. Preferisco sottolineare il termine posizionamento piuttosto che quello di radicamento perché più immediatamente può agganciarsi, fondersi con l'azione dello spostarsi, del dislocarsi verso altri luoghi, verso altre donne. La diversità di esperienza, il differente livello di difficoltà con cui ci si misura nella ricerca di libertà per sé e per le altre, sono un patrimonio, a mio avviso, inestimabile che trova forza e valorizzazione nel confronto. In questo senso, nella ricerca di libertà l'io e il noi non sono scindibili. Quando ci si sente schiacciate dal contesto in cui i nostri corpi si muovono, il confronto con altre realtà, con altre vite, apre altre viste sul mondo e su di sé. E' la voce dell'altra che esprime solidarietà e sostegno al tuo agire che consente di vedere e superare gli ostacoli. Questa particolare esperienza in cui il tentativo di costruire, progettare fa i conti con un contesto a dir poco sfavorevole è, paradossalmente, ricchezza e non solo per l'originalità dell'esperienza legata a quel luogo particolare, a quelle biografia, ma perché spesso in situazioni di gravi difficoltà, di conflitto si impara qualcosa di non prevedibile, di non afferrabile, che magari capiremo a posteriori, ma che sarà di vitale importanza per il nostro percorso. Di questo abbiamo fatto esperienza nel difficile lavoro di rete con le israeliane e le palestinesi, nei gruppi di discussione nell'area del mediterraneo, così pure nell'incontro con le donne tibetane, e in tante altre occasioni in cui il conflitto, le difficoltà sembravano insuperabili. Il prendere posizione, l'assunzione di responsabilità della propria posizione, consente di vivere il proprio tempo, di vedere gli ostacoli, di rispondere delle proprie scelte, del proprio percorso, poiché da quelle posizioni si può sempre ricostruire a posteriori l'itinerario intrapreso. E gli ostacoli mi par di vederli, sono legati alle asimmetrie, alle disparità con cui ci mettiamo in relazione, che hanno a che fare con i nostri posizionamenti a Nord, a Sud, ad Est ed a Ovest, in cui si incontra sempre qualcuna\o che pensa di non doversi `spostare', poiché ritiene di essere in una situazione di centralità, di privilegio, e per questo di poter nominare le altre, gli altri. "Scrivo per sostenere politiche ed epistemologie legate ad un luogo, ad una posizione e collocazione, dove è la parzialità e non l'universalità la condizione perché siano ascoltate le nostre proposte di sapere razionale. Sono proposte che coinvolgono la vita delle persone. Scrivo per sostenere la visuale che proviene dal corpo, un corpo sempre complesso, contraddittorio, strutturante e strutturato, scrivo contro la visuale dall'alto, da nessun luogo, dalla semplicità". Con queste parole Donna Haraway3 afferma con estrema chiarezza la sua posizione, che non ha come obiettivo la parzialità fine a se stessa di una voce limitata che esprime una posizione localistica, ma è finalizzata ad `inattesi collegamenti' ad aperture rese possibili da saperi situati. Ma l'unico modo per arrivare ad una visione più ampia è essere in un punto particolare. Il congiungersi di viste parziali promette una visione di come radicarsi in modo continuo e limitato nel corpo, del vivere entro limiti e contraddizioni, cioè la vista da un certo qual luogo che nel congiungersi con altri saperi situati trova forza e v(r)igore. Questo era assai evidente a Pechino, e la sensazione era ancora più netta, se si confrontano i due eventi che in Cina si sono sovrapposti: la Conferenza Mondiale sulle Donne delle Nazioni Unite di Pechino e il Forum delle Organizzazioni Non Governative che si è tenuto a Huairou. Era lì, apparentemente, sotto gli occhi di tutti, delle 30.000 donne confluite da ogni parte del mondo in un sito d'eccellenza dove l'empowerment4 delle donne era un fatto tangibile, palpabile, osservabile. Ma per vederlo bisognava avere occhi di donna, consapevoli della propria parzialità, legati ad una propria specifica posizione5, disponibili ad assumersene la responsabilità. Esistono svariati modi per raccontare Pechino sia perché molteplici erano gli eventi che si accavallavano e sovrapponevano6 durante quelle due settimane, sia per gli occhi che ciascuna di noi aveva per guardare e sentire, percepire ciò che stava accadendo. E' evidente che il filtro legato alla nostra provenienza, alle nostre biografie, era fortissimo rispetto alle cose che si osservavano, che si percepivano, ma è anche vero che a Huairou come a Pechino era difficilissimo sentirsi al centro del mondo, pensare a `cose' universali che potessero andare bene per tutte; tutto andava necessariamente misurato, confrontato concretamente con le altre, e non occorreva immaginarsele: erano lì. La ricchezza era proprio la valorizzazione della propria ed altrui differenza. Huairou è stata per me la festa delle differenze che si (im)pone-vano con autorevolezza. Attraverso il colore della pelle, la foggia degli abiti, i suoni delle varie lingue, (...) gli indimenticabili aromi dei dolcetti delle donne filippine, il profumo dell'ambra delle donne indiane, (...) le differenze entravano in relazione, si mescolavano, si scambiavano. Le differenze erano iscritte sui nostri corpi, sui quali si potevano leggere mille vicissitudini e su quei corpi potevi fermare lo sguardo, perché la reciproca curiosità era la norma. Era eccezionale questa dimensione conoscitiva, tutte registravamo, riprendevamo, fotografavamo tutte, in una grande festa di colori, suoni, desideri. Tutto questo avveniva ai piedi della Grande Muraglia simbolo di divisioni e conflitti insanabili, tra chi si ritiene al centro del mondo e chi è costretto a viverne ai margini. Questa era solo un'apparente contraddizione. Nord, Sud, Est, Ovest, punti cardinali, luoghi di culture contrapposte, spazi in cui il potere economico detta legge, tutto questo nella conferenza ufficiale dell'ONU a Pechino era assai evidente, molto meno a Huairou. A Pechino nello sfavillante Sporting Center, l'atmosfera era assai diversa - lontana mille miglia dal fango in cui era sommersa Huairou con le sue tendopoli traballanti, pulsanti di vitalità - la moquette ovattava i suoni, le delegazioni governative dei diversi paesi erano indistinguibili, tutte accomunate dal medesimo sfarzo, lo standard occidentale nel lusso smorzava le differenze etniche e culturali, l'omologazione aveva il sopravvento. Dalla babele di Huairou al villaggio globale di Pechino, era questa la sensazione più forte nello spostarsi da un sito all'altro. Non si avvertiva più l'umido della pioggia insistente che si abbatteva sugli stand all'aperto di Huairou, ma ugualmente avvertivo brividi di freddo, perché più che mai mi era chiaro che i contatti che in quel luogo si stabilivano erano impregnati da un'orrida miscela di dollari e sangue. Ed era altrettanto evidente che la guerra non è localizzata in un luogo, circoscritto esclusivamente ad un contesto territoriale e non presente altrove, la guerra non è nella ex Yugoslavia, nel Caucaso e non altrove, la guerra è tra noi, si insinua nei nostri rapporti; le relazioni tra le individue, gli individui ne sono fortemente segnate. La violenza che si manifesta nei luoghi di guerra si diffonde a livello globale, e da lì vi ritorna come potenziata, in un circuito in cui non si comprende bene da dove sia partita la prima scintilla; e in questo circuito le disconnessioni in cui si pratica la non violenza, la ricerca di possibili mediazioni sono ancora spazi rarissimi. I rapporti di potere che si instaurano tra le persone e le istituzioni ne sono l'espressione. Tutto questo durante la conferenza ONU si tagliava a fette. Ma anche lì - a conferma che la complessità supera ogni giudizio, o tentativo di analisi globalizzante - è accaduto che si verificassero 'inattesi incontri', anche lì è stato possibile ascoltare parole significative. A Huairou si respirava una atmosfera assai diversa, ma le disparità erano ciò nonostante evidenti: la presenza numerosa ed organizzata delle delegazioni americane, quanto mai stridenti se paragonate alle piccole delegazioni nepalesi, che si pagavano le spese del viaggio con la vendita di tessuti che avevano portato dal loro paese. La differenza tra le donne che erano lì presenti per la forza e la consistenza del loro lavoro e quelle che erano lì per la forza del loro denaro era fortissima. Il continuo pendolare da Pechino a Huairou, dalla Conferenza Ufficiale - dove eravamo state accreditate come `observer' e giornaliste7 - al Forum delle Organizzazioni non governative sottolineava le contraddizioni, già di per se fortissime tra le donne inviate dalle istituzioni e le donne delle associazioni, ed accentuava lo sguardo nomade. Ed in questo contesto si rafforzava l'idea circa l'abbandono dell'immagine di sorellanza in cui domina l'idea dell'universale similitudine tra le donne, a favore di un riconoscimento delle complesse condizioni semiotiche e materiali in cui le donne si trovano ad operare8. E da queste ultime è necessario partire per costruire alleanze, progetti comuni, misurandosi nella pratica politica. Non possiamo immaginarci le altre donne, il percorso di libertá che hanno intrapreso, dobbiamo realmente incontrarle, per scambiarci e cambiarci profondamente; e quando questo avviene concretamente, non si é piú le stesse dopo questi incontri. E non é possibile riposizionarsi senza essere responsabili dello spostamento avvenuto9. E’ necessario comprendere il mutamento generato dall’incontro, dallo scambio. Il posizionamento, seguito dallo spostamento rinviano allo stato nomade, in cui piú che il viaggiare é la disponibilitá a mettersi in discussione, a ribaltare le condizioni date, che é una modalitá di praticare il mutamento, ma é anche una modalitá d’interazione, di conoscenza; ed, é in questo contesto che le reti di relazione diventano reti conoscitive per capire, per capirsi di piú. Partire da un radicamento, o meglio posizionamento per attivare lo spostamento é questa la grande conferma che ho trovato Pechino: il rafforzamento della pratica politica del et/et, dell’importanza di lottare contro l’aut/aut radicato dentro di me, dentro di noi. Ma il tentare di gestire conflitti, la ricerca della mediazione possibile non é un percorso facile poichè ci si scontra continuamente con le disparitá, le asimmetrie, che spesso hanno l’odore acre del denaro guadagnato troppo facilmente, che lascia tracce indelebili nei rapporti, segnati dal potere mascherato da presunta autorevolezza, dalla indisponibilitá a spostarsi perchè certi di vivere una situazione di centralitá. Ma quando al mercato dello scambio, della messa in campo delle relazioni che generano contrattazione, si porta ció che si é non ció che si ha10, le disparitá presenti, i diversi desideri, generano ricchezze dove tutte possono attingere sulla base dei propri bisogni. E nel lavoro di qui e lá, nel proprio luogo e quello delle altre si fanno piccoli passi in questa direzione. Il faticoso lavoro di mosaico e la passione di mondo indicano il percorso, visualizzano gli ostacoli, in cui la sofferenza del vivere qui, la fatica dello spostarsi, sono il prezzo da pagare, ma anche lo strumento per cambiare, per cambiarsi. Per rinnovarsi continuamente pur restando fedeli a se stesse, alla ricerca di libertá che nasce dalla capacitá di modificazione di sè, la quale a sua volta, si assume con la pratica della contrattazione tra sè e sè, tra sè e il mondo. 1. Rosi Braidotti, Soggetto nomade, Donzelli, Roma 1995
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