La Conferenza di Pechino è stata importante non solo perchè
ha chiuso il decennio ONU per le donne ma perchè ha chiuso anche
un decennio di storia legata all'illusione e alla speranza dello sviluppo.
La Conferenza di Pechino si situa infatti all'incrocio di due tipi di Conferenze,
per le donne altrettanto importanti, quelle più recenti, intensificatesi
enormemente negli ultimi anni, sullo "sviluppo umano" e quelle
specificamente rivolte alle donne. Essa si colloca in questo senso al punto
di incrocio tra la percezione che dello sviluppo e della posizione delle
donne in esso si aveva nei primi anni '80 _ di cui Nairobi è stata
l'espressione _, e la riorganizzazione del quadro storico e concettuale
degli ultimi anni, espressa piuttosto dalle donne nel quadro delle ultime
Conferenze ONU sullo sviluppo umano. Pechino segna dunque una chiusura
e forse una apertura verso una nuova fase.
La posizione delle donne si è, infatti, da Nairobi, progressivamente
e sempre più radicalmente, trasformata: è divenuta da richiesta
di "integrazione", "partecipazione", "riconoscimento",
ad assumere uno sguardo critico sullo sviluppo, a sua ricollocazione in
quel quadro più complesso di civiltà, di valori e di senso
di cui reinterrogare i fondamenti. Da "diritto allo sviluppo"
a "diritto alla trasformazione".
In questo senso è importante "leggere"il messaggio che
è venuto dalle donne nel Forum di Huairou più che ciò
che di esso è stato accolto nelle conclusioni ufficiali, che avranno
importanza soprattutto sul piano delle legislazioni e della distribuzione
delle risorse ma che sono sul piano ideale estremmente arretrate.
La proposta che viene qui formulata è quella di prendere Pechino
come "ultimo capitolo" dopo Rio, Vienna, Cairo, Copenhagen, punto
di snodo/ emergenza/riformulazione di alcuni temi fondamentali nella lettura
della storia attuale, questioni sulle quali lavorare per tempi lunghi,
non più scadenzati dalle Conferenze.
Ed è questo il primo messaggio di Pechino: un messaggio di autonomia
dei movimenti delle donne sui tempi e le identificazioni di priorità
e scadenze.
Affronterò solo due questioni tra le tante, quelle che mi sono sembrate
le più intricate e dense di implicazioni per il futuro e per la
nostra ricerca: la questione della violenza, i corpi femminili sulla scena
pubblica della storia; la visibilita, l'efficacia, la differenza, le forme
e la sostanza di una politica delle donne.
Ci sono momenti della storia in cui il corso normale degli eventi lascia
intravvedere di più le strutture nascoste di ogni società.
Oggi siamo ad uno di questi momenti.
I corpi femminili, quelli reali e le figure immaginarie del femminile,
sono ormai sulla scena del mondo. "Il personale è politico"
ormai per volontà altrui. Il riaccanirsi delle religioni sui corpi
delle donne "per la salvezza della specie e dei valori della civiltà",
sia essa cristiana o islamica, la demonizzazione e divinizzazione alternate
ci hanno dimostrato chiaramente quanto le donne siano "posta in gioco"
di "patti tra uomini", corpi caricati di valenze immaginarie,
che si impiantano su una struttura profondissima che la volontà
e l'intelligenza non controllano.
In contesti diversi, a livelli, in forme diversissime, che si tratti della
regolamentazione della procreazione o della sessualità nel rapporto
con le tecnologie riproduttive, che si tratti dei corpi delle donne nella
guerra di Bosnia, veicoli di messaggi tra uomini in guerra, o dei corpi
da regolare nell'esplosione demografica, dei corpi delle giovani donne
che potrebbero parlare troppo in Algeria, è emerso chiaramente come
il corpo femminile sia divenuto, con sempre maggiore evidenza, simbolo
di un ordine più profondo il cui disordine minaccia i fondamenti
stessi di un ordine sociale e civile. Questa funzione di significante "vuoto"
riporta alla luce il ruolo d'origine delle donne: "moneta generale
dello scambio", base occulta e occultata del legame sociale.
Non ci deve stupire dunque se oggi le donne sono alternativamente "irresponsabili
da regolamentare" o "fonte di salvezza" della civiltà
che affonda su se stessa.
La crisi di ristrutturazione del capitalismo a livello mondiale rilancia
infatti, anche materialmente, il bisogno della "disponibilità"
femminile, così come la rilanciano la disperazione maschile di un
universo che si percepisce senza futuro. Nella crisi, in un patriarcato
in cui allo sfascio corrisponde la crescita di un progetto di dominio che
arriva alla trasformazione dell'intimità e delle coscienze, alle
donne è chiesto, da parte di chi comanda e da parte di che subisce,
per ragioni opposte, di moltiplicare la loro disponibilità, il loro
lavoro materiale, psichico e la funzione di "assorbimento" a
livello sociale e simbolico. In un mondo che si percepisce sempre più
come privo di futuro è loro richiesto di "confermare"
un ordine traballante: l'ordine nuovo sempre più violento, e un
ordine antico minacciato da molteplici lati.
Ma qualcosa è cambiato sulla scena: le donne conoscono il peso della
loro presenza, del loro lavoro occulto, sia esso materiale o psichico,
e questa coscienza corrisponde a un irrigidimento di sè come "variabile
flessibile".
Il loro uscire allora per iniziativa autonoma e per ragioni proprie dal
posto che è loro assegnato è percepito come sottrazione ancora
più intollerabile.
La violenza tradizionale del passato si somma a quella del presente e a
quella contro l'autonomia delle donne, qualunque significato, anche minimale,
si dia a questo termine.
La necessità di sfruttare più a fondo la risorsa femminile
si cumula alla resistenza ancestrale, riaccesa dall'allarme contro il riconoscimento
delle donne come soggetti interlocutori alla pari. E' guerra contro quei
semplici movimenti che implicano un mutamento di posizione capace però
di alterare una struttura. E' reazione a ciò che le donne ormai
con la loro sola presenza ricordano: che la loro "flessibilità",
il loro valore d'uso sociale non è "dato di natura".
Noi abbiamo sottovalutato il livello di violenza che questa sottrazione
può scatenare negli equilibri personali e sociali. L'aumento della
violenza sulle donne o contro le donne, al Nord e al Sud del mondo, la
comparsa massiccia di questo tema nell'agenda di Pechino ne ha dimostrato
il peso.
Dovremo perciò misurarci sempre più con la contemporaneità
tra l'emergere di nuove evidenze e consapevolezze che ci sembrano "progressive"
per l'umanità e l'aumentare parallelo di una violenza antica che
viene tanto dal mondo che si è proclamato portatore di civiltà
quanto da coloro che, da parti opposte, lo combattono: che viene da un
centro oscuro della relazione uomodonna. Mentre si parla delle figure estreme
della modernità, di cyborg, nella vita sociale si torna alla preistoria.
Un alto tasso di barbarie si accompagnerà, nel futuro, tanto allo
sviluppo quanto al sottosviluppo, al Nord come al Sud. Quando abbiamo ascoltato
della ripresa, oggi, in India di riti "barbari" che si erano
indeboliti, la cui posta in gioco sono le donne. Quando vediamo che in
Algeria si uccidono sempre più le giovani donne, velate o non velate;
quando i rapporti WHO dicono che le mutilazioni genitali aumentano, quando
nelle nostre società emerge il peso della violenza sessuale contro
donne e bambini, come sappiamo soprattutto all'interno delle tanto sacre
famiglie, ci deve essere chiaro che dobbiamo smettere di leggere questi
fenomeni come "avanzi di barbarie" a Sud, residui che cadranno
con le "democrazie", o prodotti di patologie individuali o di
sacche di ritardo nello sviluppo al Nord.
Un muro intoccabile, un cordone ombelicale nascosto unisce il centro disgregato
della modernità alla barbarie che "torna".
Di ciò le donne sono oggetti, posta in gioco, protagoniste distorte
e potenziali soggetti di proposte alternative. Si trovano contemporaneamente
nella difficile posizione di dover capire ulteriormente i meccanismi profondi
che accompagnano tale "crisi", di doverli decostruire proprio
mentre devono collaborare alla loro soluzione civile, senza lasciarsi intrappolare
dall'emergenza.
Una continuazione dell'interrogazione alle strutture occulte della sessualità
e delle relazioni primarie attraverso cui si costruiscono mondo pubblico
e mondo privato, "barbarie" e "civiltà" resta
perciò centrale nel nostro lavoro, in grado, tra l'altro di attraversare
confini culturali diversissimi.
Finchè non capiremo il senso profondo di queste pratiche l'uso privato,
sociale e immaginario della sessualità, il rapporto tra dominio
del corpo biologico e nascita del legame sociale non capiremo il senso
profondo del ripristino dell'ordine sessuale come base di questo
ordine civile. Non capiremo perchè il nostro papa, i nostri medici,
i politici si affaccino, improvvisamente uniti al di là di ogni
ideologia, con slancio da crociati, sul controllo sulla riproduzione una
volta allentato, in alcune aree, quello sulla sessualità, perchè
la famiglia torni ad essere il centro di preoccupazione dei nostri governanti,
di destra e di sinistra, al Nord come al Sud.
Questi anni sono stati capaci di farci perdere ogni illusione su possibili
identità collettive, visioni globali, nel senso delle possibilità
di vie semplici verso un comune mondo di donne, nella capacità di
visibilità ed efficacia delle sue intuizioni. Abbiamo di fronte
questioni vecchie da sbrogliare o riformulare e questioni nuove da affrontare.
Vediamone alcune: la questione del rapporto tra politiche della parità
e politiche della differenza e la questione dell'empowerment, che io voglio
interpretare semplicemente come un desiderio di adeguare la propria efficacia
sul reale alle intuizioni intravviste in questi anni.
Nelle nostre società del Nord l'accesso delle donne alla società
politica, sia in nome dell'uguaglianza che della differenza non è
stata in grado di produrre cambiamenti davvero significativi nelle forme
e nella sostanza della politica.
E non solo per un problema di "massa critica" insufficiente.
Da un lato la massa critica pare non essere mai sufficiente: le donne che
hanno conquistato cittadinanza e rappresentanza nella politica o nel lavoro
hanno vissuto tentativi continui di marginalizzazionefemmini-lizzazione
pura o trasformazioni continue delle loro parole e dei loro "gesti"
in funzione di interventi "femminili" di tipo assistenziale o
di sostegno/copertura a partiti e sistemi politici in difficoltà.
Hanno ritrovato, nel lavoro, un misto di segregazione e cooptazione.
Anche se è necessario tenere ferma strategicamente la lotta per
l'uguaglianza e i diritti fondamentali, recinti comunque creati dalla democrazia,
come argine minimo di difesa, non possiamo confidare più di tanto
nelle lotte per la pura inclusione o la estensione della cittadinanza e
della democrazia. L'esperienza dimostra che in quanto tali esse non "riescono"
neppure fino in fondo: vengono reincastrate in nuove gerarchie e segregazioni,
per di più riproducendo l'esistente.
D'altro lato si è trattato anche di una progressiva mimetizzazione
di origine interna, di un assorbimento della diversità nei meccanismi
della politica classica. Il problema delle regole del gioco della politica,
delle sue forme, non è stato abbastanza interrogato. La cooptazione
non è solo di origine esterna.
Inoltre la tensione a cancellare le differenze interne tra donne, si è
scontrata contro altri legami sulla base di appartenenze più antiche,
di legami culturali antecedenti, che riemergono spesso dal nulla come prioritari,
rispetto ai quali quelli di genere, nel momento della decisione politica,
degli schieramenti si rivelano fragili.
Se l'uguaglianza continua ad essere uno strumento strategico nei confronti
di un mondo fondato sul controllo sociale ed economico culturale di un
solo sesso è stato evidente che ciò di cui dobbiamo occuparci
più a fondo sono le differenze.
Si tratta da un lato di differenze da far emergere soprattutto nei confronti
del mondo maschile, nella nostra pratica politica: nella capacità
di tradurre visioni/valori alternativi in una diversità delle forme
di gestione, di relazione; si tratta di differenze interne a noi stesse
tra maschile e femminile: ciò che ci divide dalle nostre volontà
nei desideri profondi, nelle complicità con l'esistente, nella appartenenza
più forte del previsto all'universo maschile o di origine, radici
spesso più potenti di ogni appartenenza di genere.
Si tratta di differenze tra diverse collocazioni storiche, culturali, razziali,
economiche, portatrici anche di veri e propri conflitti, di diversità
di visioni, posizioni, strategie.
Di fronte a tutto ciò la nostra unica forza è quella di fare
delle differenze che ci dividono e ci collocano nella nostra parzialità
e concretezza, strumenti di lavoro, di ricerca. E, senza più contrapporre
uguaglianza e differenza usare l'una _ e i suoi scacchi _ per illuminare
l'altra.
E' qui che il percorso dentro le differenze tra noi può diventare
forza e non "divisione", secondo i parametri politici classici.
La complessità che si scopre nel ripercorrere i nostri percorsi
di differenziazione interni su una base comune, il vedere come si intreccia
la nostra storia di donne con le specificità delle nostre culture
di origine, le radici oscure che ci legano a una terra, un luogo, una cultura,
a una immagine di femminilità e mascolinità situate, alla
visione della natura propria di una certa cultura, alla percezione dei
saperi, insomma la complessità dell'humus dei pensieri e dei valori
_ delle fedi _ in cui siamo cresciute che si sono incrociati con la costruzione
di una identità femminile più ancestrale e comune, ci fa
uscire e da una facile e trionfalistica identificazione dell'essere donne
con l'avere visioni alternative di per sè e ci fa capire il percorso
che ci porta a posizioni individuali diverse.
In alcune aree di lavoro questo è già accaduto, ad esempio
negli incontri tra donne nelle aree di conflitto.
A Pechino enorme è stato lo sforzo di donne appartenenti a popoli
in guerra tra loro di lavorare insieme: l'incontrarsi trasversale tra donne
e il ripercorrere le proprie storie di costruzione del senso di appartenenza
nazionale ha portato alla ridefinizione della lettura stessa delle nazionalità,
dei sensi di appartenenza, delle priorità cui guardare anche in
tempo di emergenza, di appelli, di schieramenti: ognuna, in una struttura
di ridefinizione della formazione dell'immagine del nemico/antagonista,
ha dovuto riposizionare sè in relazione alla propria società,
smontando spesso prima la violenza invisibile che si annida in una società,
i legami anche femminili che la tengono in piedi. A Pechino, alle donne,
siano esse di Belgrado, della Bosnia o di Gaza, arrivano modi di leggere,
immaginare e gestire il legame con una "patria", la pace e la
guerra di "altri", a partire da quella vita quotidiana dove pace
e guerra si fanno e si disfano. Un modo di guardare che cambia fuoco, come
nella pratica scientifica possono mutare le domande di ricerca, un modo
di leggere sè e il reale che muta la direzione degli interventi,
la definizione delle priorità considerate "concrete" o
"pratiche".
Mi sembra che il lavoro su queste differenze, non la semplice tolleranza
o esaltazione di esse sia oggi essenziale per procedere nel doppio binario
della conoscenza e della modificazione dei meccanismi profondi e di noi
stesse e del reale.
E chiaro che le donne, soprattutto al Sud, sono oggi "l'avanguardia"
delle lotte della società civile, al Sud come al Nord, le uniche
forze non solo resistenti ma progettuali di questa fine secolo, soggetti
storici capaci di intravvedere la necessità di fondare un nuovo
patto sociale Sono anche gli unici soggetti "trasversali" rispetto
alle ideologie. Mirano dritte alla trasformazione quotidiana della vita.
Con questo si stanno ridefinendo già "l'oggetto" i campi
della politica. Forse le pratiche sociali delle donne sono già più
avanti delle capacità di farne la teoria, di farne vedere il senso.
A Pechino, come già a Copenhagen, si è visto quanto la società
civile e le donne siano invocate come ultimo argine di difesa contro poteri
dello stato e del mercato. Tuttavia questo pone una serie di problemi.
Da un lato, come scrive Raffaella Lamberti, i significati che si danno
a questo "toccasana" sono molto diversi a seconda dei punti di
partenza, cioè dello Stato in cui ci si trova a vivere e di cui
ci si trova ad essere "la parte di società civile": in
Algeria, all'Est, in Palestina o nei paesi "democratici" fare
"società civile" può significare cose molto diverse:
richiesta di diritti umani, di non ingerenza statale, o al contrario di
ingerenza statale per ritrovare partecipazione tra forme di governo e "bene
comune" dei cittadini, e probabilmente altro ancora.
Dall'altra parte mi pare avvenga ancora una neutralizzazione della soggettività
femminile rispetto ad un sociale di per sè.
Questo appello alla società civile continua a permettere la dicotomia
tra società politica e società civile che riporta ad altre
dicotomie più di base, proprio quelle che abbiamo cercato di mettere
in discussiome in questi anni.
A me pare che il senso più grande della politica del quotidiano
o della riunificazione in politica di pubblico e privato operata dalle
donne sia stata in realtà una problematizzazione/ridefinizione dell'oggetto
stesso della politica, una ridefinizione della separazioni tra campi (sociale
e politico soprattutto) che porta a un deperimento delle sfere separate:
stato e società civile.
Molte tra noi considerano limitativa la interpretazione delle lotte delle
donne come pezzo avanzato della società civile. Ci si è domandato
se non sia preferibile "far parlare direttamente come spazi politici"
gli spazi visibili che le donne hanno costruito, ritagliato a volte, le
forme specifiche di pratica di relazione tra loro, i modi di rileggere
i contenuti prioritari che ne escono, le forme inventate per lavorare,
pensare, sopravvivere.
Le loro caratteristiche di piccole aggregazioni, poco visibili, considerate
più parte del sociale che del "politico" le collocano
fuori dalle categorie classiche del pensiero politico. Queste aggregazioni,
e i loro specifici modi di lavorare, non riescono ad avere, spesso, nè
legittimazione nè rappresentazione, neppure al proprio interno.
Ma l'indicazione, metodologicamente, è chiara.
Come per l'economia, dove la immissione della categoria della riproduzione
ha terremotato lo spazio concettuale dell'economico, qui si rimescolano
i campi, si fanno proposte di forme di lavoro/ discussione/ gestione del
denaro/soluzione dei conflitti/modi di fare cultura che stanno fuori dei
luoghi istituzionali, che si propongono come spazi politici pubblici, dove
convivono l'analisi/consunzione del "vecchio", inteso come appartenenze
collettive precedenti da riattraversare, emersione del "nuovo",
come invenzione sulle forme che ne riscono e sulle relazioni che le nutrono.
E chiaro allora che nella ricerca di un nuovo patto di convivenza civile,
che mi pare essere quello che le donne stanno cercando di costruire oggi,
l'orizzonte di Pechino ci allontana sempre più dalla filosofia che
sottende il documento della Conferenza ufficiale e le sue parole chiave.
Forse delle parole chiave di Pechino solo la parola "pace", significativamente
ancor più sacrificata in sede Ufficiale tra le questioni relative
allo sviluppo, si avvicina e "comprende" quanto le donne hanno
fin qui delineato, ma questa parola in fondo comprende tutta una storia
ancora da fare.
Per usare una metafora oramai usurata nel pre-Pechino la "grande marcia"
è davvero appena cominciata. Il portare a casa Pechino si configura
come una marcia ancora più lunga.
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