Questo articolo descrive il mio lavoro di volontariato svolto con
donne che hanno vissuto nel clima di tensione causato dall'occupazione
israeliana della fascia Occidentale della Palestina, dalla crescente consapevolezza
dell'oppressione da parte della società tradizionale, dominata dall'uomo.
Quando questa tensione raggiunge il suo massimo in un episodio drammatico,
si parla allora di trauma.
Ho lavorato con donne che erano state picchiate o ferite durante le dimostrazioni,
ex prigioniere che erano state torturate e violentate, donne che avevano
perso il marito o i figli perché morti o deportati, donne le cui
case erano state fatte saltare in aria dalle autorità, donne che
si stavano riprendendo da aborti provocati dalla tensione, e donne animate
solo da tenui speranze che i loro figli possano condurre una vita migliore
di quella che è toccata a loro.
Fin dall'inizio dell'Intifada, le donne hanno cercato di partecipare alle
lotte per l'indipendenza. Hanno fatto parte dei comitati, hanno iniziato
a boicottare le merci Israeliane, hanno fatto volontariato negli ospedali,
hanno rischiato la vita per salvare i bambini durante le dimostrazioni
ed hanno procurato il cibo durante il coprifuoco. A volte la loro attività
le ha fatte entrare in conflitto con gli uomini della loro stessa società.
In questo articolo cercherò di descrivere il mio compito facendo
esempi clinici delle esperienze di donne con cui lavoro. Discuterò
il contesto teo-retico del problema e descriverò le soluzioni che
ho cercato di adottare. Naturalmente, gli esempi clinici sono casi più
estremi dei problemi della società generale, e perciò questa
non è un'analisi realistica dell'effetto dell'Occupazione sulle
donne Palestinesi. Farò anche delle raccomandazioni per il lavoro
futuro in questa zona. Ho trattato il problema utilizzando la metafora
delle donne che vivono in prigione all'interno di una prigione: la prigione
della società dominata dal maschio all'interno della prigione dell'occupazione.
Perciò ho scelto, come protagonista della mia discussione, una donna
che chiamerò Sahar, un'ex-prigioniera con la quale di recente ho
avuto un colloquio.
Nel 1978 Sahar fu arrestata dalle Forze della Sicurezza Israeliana per
attività politiche. Aveva 17 anni ed era stata sposata per sette
mesi. Era incinta ed ebbe il suo primo bambino in prigione. Sahar mi disse
che quando era incinta del primo figlio, non pensava mai alle proprie condizioni
fisiche o emozionali: i suoi pensieri erano rivolti alle condizioni del
popolo Palestinese ed a come avrebbe potuto aiutarlo. Uscita di prigione
nel 1985 si risposò e, con altri 4 bambini, continua tuttora ad
essere attiva sia economicamente che politicamente e vive con la paura
costante di un altro arresto. Mi sembra che la condizione di Sahar si possa
definire della "Super Donna Palestinese" (userò l'abbreviazione
SDP). La donna palestinese è ancora legata al ruolo tradizionale
di madre: colei che protegge e tiene unita la famiglia, che cresce i figli.
Ma le enormi pressioni politiche e sociali nella società palestinese
l'hanno costretta ad assumersi nuove responsabilità senza rinunciare
ai ruoli che già aveva. Da quel poco che vi ho detto finora di Sahar,
è possibile vedere qualche sintomo di questa sindrome. Sposata presto
e rimasta subito incinta, non ebbe tempo di avere un contatto con i cambiamenti
che avvenivano nella sua vita, poiché il peso delle pressioni dell'occupazione
fu il suo interesse principale. Nonostante ciò, la società
e suo marito si aspettavano che lei avrebbe adempito a tutte le sue responsabilità
tradizionali di donna. Molte donne palestinesi sono state anch'esse combattute
da simili conflitti: la causa comune contro il ruolo di madre e di protettrice.
Alcune donne mi hanno detto di essere combattute tra la sensazione di dover
mandare i propri figli, con la loro benedizione, a dimostrare per le strade,
e la sensazione causata dalla consapevolezza che sarebbero stati uccisi
o mutilati.
La prigione israeliana della vita reale è territorio off-limits
per le donne palestinesi. La donna palestinese che sceglie di essere attiva
per la causa del suo popolo, si espone al rischio della carcerazione e
delle torture da parte degli israeliani. Un'ex prigioniera, con cui ho
parlato, soffre di depressione ed ha un comportamento autodistruttivo.
Anche Sahar era stata una donna prigioniera che, da sola, aveva affrontato
il mondo maschile, all'interno di un mondo di uomini. Era stata in grado
di occuparsi della sindrome della SDP con forza e risoluzione, costruendosi
una famiglia e continuando, allo stesso tempo, la sua attività politica.
Durante le ore del coprifuoco, il marito è costretto a trascorrere
del tempo nel territorio della moglie: la casa. Nei casi di lunghi coprifuochi
(a volte durano per settimane) la tensione diventa insopportabile. Le donne
israeliane riportarono simili trauma durante la Guerra del Golfo, quando
stavano a casa con i loro mariti perché non potevano andare a lavorare
ed erano costretti a stare insieme in stanze chiuse, durante gli attacchi.
In queste situazioni dovevano far fronte ai loro sentimenti di terrore,
dovevano badare ai figli e dovevano fronteggiare il sentimento di impotenza
del marito, che spesso questi sfogava su di lei.
Metaforicamente, le donne palestinesi fuori di prigione sono esposte anche
alla minaccia della violenza. Soldati in cerca di materiale sospetto o
proibito possono entrare nelle loro case in qualsiasi momento. Spesso non
bussano e violano improvvisamente la privacy della coppia, e non permettono
neanche ai genitori di difendere i propri figli. L'unica differenza che
esiste tra le reazioni delle donne alla continua minaccia di perquisizioni
ed i disturbi delle tensioni post-traumatiche è che il trauma continua.
Questa situazione può essere la causa di gravi problemi comportamentali
nei bambini che hanno vissuto la paura delle perquisizioni e che hanno
visto che i loro genitori non sono in grado di proteggerli. Questi, quindi,
esternano la loro paura con un comportamento disgregativo in casa, per
mettere continuamente alla prova la forza dei genitori.
Le donne sono iper-attente a causa dello sforzo ulteriore che devono compiere
per proteggere i bambini. Una donna mi ha detto che non lascia mai la casa
e non permetterebbe mai che i suoi figli lo facessero, per paura che potrebbero
rimanere feriti accidentalmente nel caso di un'attività politica
nelle vicinanze. Questo atteggiamento iperprotettivo ha effetto sui bambini
e, talvolta, sembra che si esprima come una patologia simile al trauma.
Ne è l'esempio una bambina di 10 anni che vide dei soldati inseguire
e picchiare alcuni bambini durante una dimostrazione. Questa, adesso, si
rifiuta di andare a scuola e non può neanche camminare senza aiuto.
La continua crisi dell'occupazione viene spesso giustapposta alla crisi
del normale sviluppo umano. Una donna mi ha raccontato che suo figlio adolescente
è rimasto gravemente ferito durante una dimostrazione. La ferita
ha provocato varie infezioni e la perdita di entrambe le gambe. Questi
non va a scuola ed ha interrotto la sua attività politica, ciò
che principalmente dava un senso alla sua vita. Per un adolescente che
da valore alla propria indipendenza e che guarda al futuro, la ferita costituisce
un vero e proprio colpo al suo stadio di sviluppo ed ha generato una crisi
all'interno della crisi: la crisi della sua salute deteriorata all'interno
della crisi del suo sviluppo adolescenziale che viene minacciato. E' diventato
impossibile viverci assieme, fa richieste irrazionali e da la colpa alla
madre per i problemi anche più piccoli. Lei non sopporta di vivere
ancora con lui ed è arrivata a provare dell'odio. Naturalmente odia
di più se stessa perchè si sente in colpa ed è diventata
una depressa cronica. Poichè le donne sono le tutrici principali
e sono responsabili del benessere di tutta la famiglia, sono particolarmente
soggette alla depressione, ad attacchi d'ansia e di panico.
Anche Sahar ha dovuto cimentarsi con le sue responsabilità di sorvegliante
anche in prigione. Aveva ottenuto il permesso di tenere il bambino per
i primi 2 anni di vita, ma non poteva sopportere il fatto che questi crescesse
in tali condizioni. Alla fine lo lasciò a sua madre, che lo crebbe.
Adesso ha 15 anni, lei non prova più un sentimento materno nei suoi
confronti e si rivolge a lui come ad un fratello minore.
Laura S. Brown, seguendo la "Stone Center School", ha asserito
che le donne tendono a definirsi in un modo interpersonale, chiamato "rapporto
in se stessi". Invece di vedere lo sviluppo come fa Mahler, il coinvolgimento
dell'attività, per mezzo del meccanismo di separazione e di individuazione,
questa scuola vede il normale sviluppo della donna come la continua ridefinizione
di se stessi in relazione alle persone che sono per lei importanti. Molti
critici hanno raggiunto nuove comprensioni partendo da questa teoria, nel
corso del loro lavoro con donne traumatizzate, permettendo loro di raccontare
le proprie storie in un contesto relazionale ad un ascoltatore comprensivo.
Molti dei disordini osservati nel mio lavoro possono essere considerati
dei disordini relazionali. Un'ex-prigioniera condannata all'ergastolo,
ma rilasciata dopo 15 anni, mi ha parlato della sua crescente depressione
provocata dal vai e vieni, in prigione, di donne che avevano pene inferiori
da scontare. Alcune donne definiscono il significato ontologico del loro
trauma come se questo dipendesse dalla solitudine, come, ad esempio, il
caso della donna i cui quattro figli erano stati arrestati ed il cui fratello
era stato ucciso.
Ricapitolando, la donna palestinese oggi vive ed agisce all'interno di
prigioni concentriche che generano stress emotivi. La tensione dell'occupazione
ha costretto le donne ad assumere sulle proprie spalle il peso del mondo
degli uomini in aggiunta ai loro fardelli tradizionali, e le ha poste in
aperto conflitto con il mondo degli uomini dell'esercito israeliano e della
società tradizionale. L'occupazione ha creato un'altra area di conflitto:
la lotta per la libertà contro la tradizionale figura di protettrice
dei suoi piccoli. La vera vittima dell'occupazione è stata la famiglia
palestinese. La famiglia, in un paese occupato che lotta per l'indipendenza,
ha il compito di allevare la prossima generazione come un popolo emozionalmente
libero. A questo punto, questa è la responsabilità primaria
della donna. Ma adesso, nella migliore delle ipotesi, la madre può
solo crescere i propri figli facendo continuamente fronte alla tensione.
La cronaca di questa prigionia è registrata nelle pagine grottesche
del DSM-IV: disordini dovuti all'inquietudine, al panico, forme più
gravi di depressioni, disturbi paranoici e schizoidi, e le varie psicosi.
I nuovi casi, come le donne colpite dalla sindrome della SDP e la solitudine
esistenziale, riempirebbero le nostre cliniche se ce ne fossero abbastanza.
Si è venuta a creare una condizione sociale caratterizzata, secondo
lo psicologo esistenziale Rollo May, dalla presenza di "cuori feriti
in tutte le case".
Negli ultimi tre anni sono venuta a contatto con queste donne attraverso
il mio lavoro come volontaria a Nablus e dintorni. Ho svolto il mio lavoro
organizzando soprattutto delle sessioni di terapia individuali con donne
e bambini, e gruppi di conversazione con ragazze adolescenti. Nel mio lavoro
individuale ho utilizzato la mia pratica, si è trattato soprattutto
di psicoterapia psicodinamica, per ascoltare in modo empatetico i miei
clienti e per aiutarli ad analizzare la loro situazione in modo costruttivo,
per vedere quale parte della loro vita è nei limiti del controllo
e con quale bisogna vivere. Un esempio di questo approccio è costituito
dalla donna il cui marito lavora in Israele ed è spesso a casa a
causa di coprifuochi e chiusure. Questa era ed esprimeva una costante tensione
e veniva picchiata ripetutamente dal marito. Dal momento che non esistono
centri per le crisi o rifugi per le donne che vengono picchiate nella zona
in cui lavoro, l'ho incoraggiata ad analizzare il suo problema per cercare
di capire quale parte della sua vita avrebbe potuto controllare e lei si
è resa conto che avrebbe potuto evitare di essere picchiata parlando
al marito dei suoi problemi e cercando di comprendere la sua situazione,
e parlandogli dei propri problemi in questo contesto, creando perciò
un senso di solidarietà, piuttosto che porsi uno contro l'altro.
Un altro esempio del modo in cui mi sono occupata di questi problemi viene
dato dalla organizzazione di gruppi il cui scopo era quello di accrescere,
nelle donne, la stima verso se stesse. Mi fu chiesto, una volta, di lavorare
con un gruppo di giovani donne del villaggio che non erano interessate
ai programmi di automiglioramento svolti da un'organizzazione locale. Le
donne erano timide ed io, all'inizio, ho investito tutte le mie energie
per rompere il ghiaccio parlando di me e cercando di far fare lo stesso
a loro. Le donne, nei loro primi vent'anni, erano tutte single, ed avevano
cominciato a pensare che avevano qualcosa che non andava (in questo villaggio
la maggior parte delle donne si sposano verso i 15 anni). Abbiamo discusso
della possibilità di rimanere single per scelta e non come se fosse
una punizione. Questa discussione provocò reazioni di frustrazione
e rabbia per la loro condizione di donne. Nel corso della conversazione
ho fatto del mio meglio per incoraggiare le partecipanti a rispettarsi
tra di loro e ad ascoltarsi su un piano umano, e loro hanno cominciato
lentamente a pensare insieme come avrebbero potuto migliorare la loro esistenza.
La cosa più importante che ho imparato negli ultimi tre anni è
che il lavoro di una persona non basta. C'è bisogno di un centro
ampio ed indipendente, che sia in grado di occuparsi dei problemi delle
donne pale-stinesi e delle famiglie nella loro complessità.
E' per questo motivo che io sto cercando, attualmente, un modo per costituire
un centro per le donne e le famiglie a Nablus e nella parte settentrionale
della fascia Occidentale, che potrà essere più efficace nell'affrontare
i problemi di cui sopra. Poichè è importante avere un servizio
integrato, di base comunitaria che colleghi tutte le zone dei servizi,
il centro proposto avrà quattro moduli: la prevenzione e le prime
cure, la psicoterapia di gruppo, lo sviluppo umano, e l'intervento sulla
crisi.
Gli scopi del programma sono i seguenti:
1 - aiutare le donne a svolgere i loro compiti quotidiani sotto tutti gli
aspetti:
a. aumentando la stima ed il concetto che ha di se stessa trasformando
la figura della donna nella famiglia e nella società;
b. integrando le donne nei settori socioprofessionali ed educativi;
c. raggiungendo una buona salute fisica e psicologica.
2 - Fornire un aiuto pratico alle donne che affrontano le difficoltà
della vita.
3 - Far si che le donne siano in grado di esaminare le loro forze e le
loro debolezze, e di esplorare il cambiamento appropriato.
4 - Aiutare le donne a partecipare agli sviluppi economici, sociali e politici
della società palestinese.
I quattro moduli realizzeranno questi scopi con mezzi differenti: prendendo
come obiettivo le fasce della popolazione con problemi specifici, come
la fascia a rischio e quella sulla quale incombono specifiche minacce di
sviluppo, come per esempio gli adolescenti ed i genitori giovani.
La formazione professionale dello staff occuperà la maggior parte
del programma, poichè verranno assunti leader naturali non professionisti.
Lo crescita dello staff fa parte della filosofia di base comunitaria del
programma, durante il quale le donne verranno reclutate dalle fasce della
popolazione suddette e saranno istruite come consulenti laici.
Verranno fatte ricerche e valutazioni in ogni modulo e questo ci aiuterà
ad imparare a migliorare i servizi. Un dipartimento di pubbliche relazioni
ci collegherà alle altre organizzazioni simili fuori Nablus e ad
altre organizzazioni che lavorano con noi. Il materiale verrà diffuso
attraverso le scuole, le cliniche per i bambini, le organizzazioni delle
donne ed i media.
Per concludere, spero di avervi aiutato a comprendere la com-plessità
del problema delle donne palestinesi e l'urgenza di creare questo programma
per le donne dell'area in cui lavoro.
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