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Vivere lontano dal proprio paese: una testimonianza | Aicha Bouabaci |
Avevo iniziato a lavorare a questo articolo con l'idea di fare un'analisi rigorosa sulle condizioni degli immigrati algerini in Francia e in Germania. Mentre lavoravo ho capito che non era questa la strada giusta. Perché parlare di un problema nella sua totalità, "Immigranti e profughi nel Mediterraneo", visto che vi ero coinvolta in prima persona? Non sono forse una donna del Mediterraneo che vive fuori dal proprio paese in condizioni particolari, in un paese del nord Europa, con una esperienza di immigrazione? Non ho forse un interesse verso questi uomini e queste donne che mi vivono accanto, che quotidianamente incontro in metropolitana o sull'autobus e che hanno lasciato il proprio paese, vittime della guerra e della miseria? Non sono forse stata coinvolta nella difesa dei diritti umani, tante di quelle volte, con l'uso della sola arma che posseggo: la scrittura? E mi sono detta: Se domani, nella nostra riunione intorno a questo tavolo a Limassol1, le donne dovranno parlare della loro condizione speciale di immigrate o profughe, perché io non dovrei parlare della mia particolare condizione di esule da un paese, attualmente preso dal furore e dall'ira. Vivo in Germania ma sono in grado di definire la mia condizione sociale in territorio tedesco, incapace di compilare un documento ufficiale, su cui mi troverei costretta ad aggiungere questa osservazione: "lavoro e vivo in Germania con i miei figli da questa data, ma non posso dire quando andremo via - perché so che andremo via, questo è certo - non so cosa faremo domani, dove saremo domani, aspettiamo...". Ho lasciato l'Algeria nell'autunno 1994. Ho seguito mio marito, trasferito con una carica ufficiale a Francoforte sul Main, in Germania. Il regolamento professionale di mio marito ordina che sia accompagnato dalla famiglia durante il periodo di incarico all'estero. Il regolamento professionale governativo, che mi riguarda, autorizza il dipendente civile a sospendere (temporaneamente) le sue funzioni per seguire il coniuge, quando questi è trasferito sia all'interno del paese che all'estero. Io sono quindi il coniuge che segue... Anche i nostri figli ci hanno seguiti. In base alla definizione del dizionario di questo spostamento, emigrare significa lasciare il proprio paese per stabilirsi in un altro, temporaneamente o permanentemente. Ma i miei connazionali non mi hanno mai considerata un'emigrante, e la gente che abbiamo incontrato e che ci è stata vicino nelle nostre peregrinazioni attraverso diversi paesi, non ci ha mai considerati con questa etichetta. Tantomeno ciò è stato fatto dalle istituzioni del paese che ci accoglieva, che ci hanno sempre riconosciuto un stato sociale particolare. Segue scambio di doni. Secondo protocollo internazionale. Emigranti mondani?/ Turisti speciali? Per ciò che mi riguarda, non mi sono mai considerata come appartenente ad alcuna di queste categorie, dal momento che non sono molto interessata agli onori. Ma, è vero, posso apprezzare, nella misura del suo valore, questa possibilità di insediarsi in un luogo per un periodo, di uscire e divertirsi, di trapiantare i semi della propria cultura da un'altra parte e di raccogliere i semi dalla cultura dei pripri ospiti. Per poter capire, per arrivare a conoscere, per vedere da vicino, per ascoltare e toccare. Incrociare le mani nell'incontro. E' questo il mio desiderio. O il mio delirio? Preferirei "desiderio": perché l'esperienza mi ha dimostrato che al mio appello di ouvertures, rispondono suoni simili: più stimolanti che aggressivi. Due voci, che si cercano, si trovano e si mettono alla prova, penso sia questo ciò che chiamiamo dialogo, ed io ho profonda fede nel dialogo fra culture. Ma continuiamo la nostra ricerca lessicale. Dal momento che non ero considerata un'emigrante in patria ed un'immigrante nel paese che mi accoglieva, ero dunque un'espatriata? Espatriare, come da dizionario, significa lasciare la propria patria e stabilirsi da qualche altra parte. Quindi, essere emigrata significa essere espatriata dal momento che ho lasciato il mio paese per vivere da un'altra parte. Personalmente, non credo di essere emigrata, di avere lasciato luoghi che mi appartengono ed ai quali appartengo, per scelta personale, nello schema di una decisione. E' una decisione di altri, una scelta di altri e rappresenta, sia per mio marito che per me, un obbligo - talvolta piacevole, talvolta difficile ma mai neutro - che dobbiamo rispettare, in quanto deve coincidere con l'interesse sia dello stato che della carriera. La gente emigra sotto la spinta di ragioni economiche. Accadeva durante il periodo coloniale, e ancora accade. Anche per ragioni politiche. Si può anche emigrare sotto la spinta di altre ragioni, che non siano miseria, pericolo o paura. Talvolta per cambiare esilio. Per lasciare l'esilio che si vive nel proprio paese e scegliere un esilio "di vasta cultura", distante migliaia di chilometri. Per ex espatriate da un circolo. Come mi suona violento questo prefisso "ex"! Lo sento pericoloso, provocatorio verso la memoria. Sento come se la mano di un gigante passasse pesantemente sopra ogni traccia umana, la rendesse pesante e spazzasse via ogni seme; per disperderli. Per sconfiggere la memoria. L'esistenza in patria è cancellata. Scenario di desolazione. Non voglio questo mortale "ex". Lasciando il mio paese in quel momento, ho anche lasciato la morte, la morte che si era portata via gli amici, i miei familiari e molta gente anonima. Avevo gli occhi pieni di lacrime e ho desiderato di poter restare. E "l'immigrazione" ebbe inizio... In Germania, un paese la cui storia avevo studiato ed osservato da lontano e la cui lingua avevo udito nell'Algeria colonizzata. La mia città nativa era una città di presidio. Vivevamo vicino alla caserma. La caserma dei soldati della Legione Straniera, la maggior parte dei quali veniva dalla Germania o da paesi di lingua tedesca. In seguito ho sempre desiderato imparare questa lingua... certamente per rimanere aggrappata a questo ricordo d'infanzia. Attualmente la Germania presenta una varietà di lingue e nazionalità differenti. Una amplificata frigidità nordica. Ovunque sono riservati benvenuti. Ma io sono sempre imbarazzata dalle frontiere - quelle che racchiudono, maltrattano, ti fanno più piccole. Come un ipnotizzatore, vorrei mettermi di fronte a loro e ridurli con uno sguardo. Uno solo. Potente. Mi trovo quindi ad essere protetta da una condizione sociale speciale. Per esempio il personale maleducato dei grandi magazzini non mi intimidisce. Ci potrebbe essere un'arma per controattaccare queste persone poco delicate, almeno una usata da un'amica francese, "perché, vedi, dal momento che uno non parla un tedesco corretto...", "ich bin nicht Asil land!" disse (che significa: risiedo qui regolarmente; pago le tasse...). Ich bin nicht Asil land! Non cerco asilo! In cerca di asilo: che ricordo doloroso della situazione permanente nel mio paese, queste parole tanto spesso udite! Spesso osservo i ragazzi algerini, incuranti, poco discreti, passeggiare su e giù per Zeil, questa enorme strada pedonale nel centro di Francoforte sul Main: e mi sento divisa fra un sentimento di tenerezza per questa gioventù sacrificata e l'imbarazzo per il comportamento non corretto che alcuni di essi esibiscono. L'asilo economico ebbe inizio con loro: centinaia di giovani algerini, attratti dal potere del marco tedesco e la vita comoda ed allegra dell'Europa, vi si precipitarono. Che esca terribile! Si vedono spesso, vestiti con jeans e giacche di pelle, in gruppi di due, tre o quattro, che parlano ad alta voce, con arroganza. Come se volessero convincersi - e convincere gli altri - che si sentono a casa propria. Comprensibile autodifesa! Viene chiamata così, qui! Sono spesso stata testimone di transazioni nelle stazioni della metropolitana: due mani che si passano qualcosa, con movimento discreto; parole talvolta isolate, talvolta violente; soldi; negoziazioni. Capita che riescano ad accordarsi: 10 marchi tedeschi. Parlano in arabo algerino. Ho assistito a situazioni simili in arabo marocchino, ma in questi casi la violenza era forte - non si rendono neanche conto che i passanti possono capire; siamo in Germania! Mi viene spesso il desiderio di prenderli per le spalle, questi giovani fratelli e figli, e chiedere loro: "Perché?" Ma non ho il diritto di dire: "Tornate a casa!" Cosa trovano a "casa"? Sono giovani e gioventù è sinonimo di vita. E lì la gente muore a decine, centinaia, migliaia... Li si vede spesso, davanti ai telefoni pubblici di Zeil, parlare ad alta voce con qualcuno in patria. Con la voce piena di gioia ed emozione, chiedono notizie del padre, della madre, di ogni fratello e sorella, ripetendo i nomi e chiedono: "Come stai? Come stanno tutti?" Come se volessero esorcizzare assenza e nostalgia... Casi così continuano ad emozionarmi. E dicono: "Di cosa hai bisogno? Dì ad x che gli ho comprato una giacca di pelle, cosa gli piacerebbe? Una bicicletta?... Sì, sto bene, persino molto bene!" E l'uomo che lo dice che tipo di vita ha qui? Una vita di instabilità e offese. Anche qui, c'è controllo costante sull'identità della gente con la pelle scura... algenini o altri. Spesso riconosco questi giovani fratelli... senza documenti, mani in tasca, imbarazzati o che cercano di scappare. Disperatamente. Alla fine: prigione - talvolta - espatrio. Per questi giovani, traditi dai loro stessi sogni, per questa gente espulsa, l'aereo su cui si imbarcano li conduce alla morte.2 All'inferno. E non lo vogliono! Vogliono rimanere qui. Nelle prigioni ci sono state due sommosse: nel 1994 e nel 1995. Con ostaggi. Contro l'espatrio. "Essi" rifiutano di lasciare il luogo in cui avevano scelto di stabilirsi. Dove inizia la libertà individuale? E' necessario misurarla come le dosi del latte per il biberon del neonato? E' necessario che finisca con l'arresto? E non è forse vero che ciò esiste solo per gli esiliati provenienti da paesi diseredati, come il mio - e nel caso dell'Algeria sottolinerei "diseredato", in quanto nel passato esisteva una preziosa eredità culturale e socio-economica che è andata dispersa. Talvolta accade che i miei giovani connazionali abbiano la buona sorte di incontrare una giovane tedesca - per origine o naturalizzata - grazie alla quale possono legalizzare il loro status sociale: matrimonio di amore o di solidarietà, o entrambi. Tanto meglio. In questo modo alcuni di loro possono studiare e lavorare allo stesso tempo. Lavoretti che danno la sensazione di sicurezza, tanto necessaria ad ogni essere umano. Anch'io ho molto aspirato a questa sensazione di sicurezza, anche se il mio ambiente, la mia condizione sociale non erano certo precari. A un certo punto la missione in Germania di mio marito improvvisamente terminò. In meno di un anno. Questo ostacolo aprì la strada a dolorose domande e naturalmente a "scelte": se il nostro paese non fosse, a tutti i livelli, in una situazione tragica, saremmo partiti senza emozioni, senza dubbi. D'altro canto non sarebbe stato che un ritorno in patria. Ma lì gli intellettuali vengono uccisi, e io sono una di loro, le donne vengono uccise, e io sono una donna, gli insegnanti sono minacciati, le scuole sono bruciate. La mia famiglia si preoccupa per me ed io mi preoccupo per i miei figli. Così con un grande sforzo da parte loro, tanti sacrifici in pochi mesi allo scopo di lenire il gran dispiacere per l'allontanamento dal loro paese, dalla famiglia, gli amici, i lutti, tanta fatica per riuscire ad ambientarsi nel nuovo paese, alla sua lingua e al suo sistema scolastico; per poi dover subire un nuovo spostamento; per imporre loro altre cose che andavano nella direzione opposta. Scegliemmo quindi di rimanere per il loro bene - ed io ho cambiato stato sociale... ero "diventata" un'emigrante, senza in realtà esserlo. Scelta imposta da una urgenza estrema. Dovevo rimanere per un po', quanto meno per un po' di mesi. Non oltre. Dopo tutto il caos non avrebbe portato via il mio paese! Rifiutavo questa fine con tutte le mie forze. Essere emigrante per un certo periodo non è così serio. Emigrante temporanea: suona come una sfida: "Vedi, sono qui; approfitto dell'ospitalità del paese di accoglienza; ma solo per un certo periodo; non preoccuparti; conosco la strada per tornare!" All'interno dello schema temporaneo di questo mio soggiorno, non posso neanche chiedere vantaggi dalle leggi sociali, di cui usufruisce chi vive in condizioni sociali precarie. Sono fortunata ad essere ben accetta in questa terra, devo ritenermi già così soddisfatta di questa fortuna. Non esiste nessuna rete di mutuo aiuto. Nessun supporto finanziario. Nessuna associazione alle mie spalle, ONG o altro, a casa, qui o altrove. Devo combattere con le difficoltà linguistiche, con la complessità delle regole. Vivo da cittadina comune, con le capacità di una normale cittadina protetta dalla legge, con un futuro qui; senza costrizioni. Come di fronte al nulla. Come se naturalmente mi trovassi in una situazione comoda! Posso dire di me stessa di godere di uno status speciale, quello di non averne alcuno, stando al vocabolario ufficiale. Ora posso anche dire: "Ich bin nicht Asil land". Sgobbo; pago le tasse - persino come una donna benestante. Ho offerto una vita decente ai miei figli. Nessuno mi ha impedito di tornare a casa. Ci vado spesso per vedere la mia famiglia, sempre accompagnata dall'angoscia... Né penso di aver trovato rifugio qui; accademicamente parlando: "Luogo dove si trova pace, calma, serenità"; io e la mia famiglia abbiamo sicuramente trovato un riparo dai pericoli, ma non mi sento al sicuro qui; per migliaia di ragioni. E mentirei se dicessi: "Qui ho trovato la pace, calma, serenità". Perciò non sono una "profuga", per questa ragione e per tutte le altre che questo status implica a livello economico e politico. Sicuramente ho trovato una vita normale, qui, come quella che avrei desiderato avere nel mio paese dove vita e buon senso non sono compatibili. Qui cresco da sola, fra amici e conoscenti, tedeschi, algerini e cittadini di altre nazionalità; africani, la cui naturale gioia di vivere è spesso rattristata da una insidiosa nostalgia; Medio-orientali, latino-americani, europei e altri ancora. Li vedo di rado, ma so che ci sono, pieni di affetto nei miei confronti. Ma anche perché, fra i nemici del mio paese e altri, penso che la mia verità scuota le loro certezze. Ma è forse questa verità non vera? A questo punto non posso evitare di citare questa bellissima poesia del francese Guillaume Apollinaire, dedicata ai sogni e alle speranze degli emigranti: (...)Con gli occhi pieni di lacrime guardi quei poveri emigranti Loro credono in Dio pregano le donne allattano bambini Riempiono del loro odore l'atrio della gare Sain-Lazare Hanno fede nella loro stella come i re magi Sperano di far soldi in Argentina E tornarsene a casa dopo aver fatto fortuna Una famiglia trasporta un piumine rosso come voi trasportate il vostro cuore Quel piumine ed i nostri sogni sono altrettanto irreali (...)3 In quanto a me, ho questo sogno: non sono un'emigrante/immigrante non sono una profuga, non un'esiliata, poiché il mio cuore è lì; poiché l'Algeria è qui. Sono una donna lontana dal proprio paese, che aspetta di ritornarci. 1.V Conferenza Annuale della Association of Women in the Mediterranean
Region che si è tenuta a Limassol, Cipro.
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