La Palestina, uno spazio fisico e un luogo della mente


Shadia Matar

Al centro della causa palestinese ci sono i profughi palestinesi. La risoluzione totale del conflitto palestinese-israeliano ed il raggiungimento di un accordo di pace globale nel Medio Oriente, significa che, fra i vari problemi, è necessario affrontare e risolvere quello dei profughi palestinesi. Il fallimento nel raggiungimento di una soluzione soddisfacente al problema, costituisce una minaccia costante al raggiungimento di una pace durevole, della stabilità e sicurezza della regione. 
La forza fisica, le intimidazioni psicologiche, il terrore e la legittima paura per la propria sicurezza, sono le ragioni che stanno dietro l'espulsione e l'esodo dei profughi palestinesi dalla loro terra, la Palestina, nel 1948. Costretti, dopo la catastrofe del 1948, ad accettare l'insostenibile fardello dell'esilio, quasi in un tentativo di negare l'esilio, i profughi palestinesi conservarono le chiavi delle loro vecchie case e gli atti delle loro terre, insieme a qualsiasi documento attestante un legame con le proprietà perse. Restavano aggrappati a questi documenti come se dovessero servire da un momento all'altro. E anche se non servivano, tuttavia erano la prova che i possessori non erano dei nomadi derelitti, ma gente con uno stato sociale e diritti, detentori di case e proprietà. Anche coloro che si erano rifiutati di partire o erano rimasti nelle proprie abitazioni, a rischio della propria vita, alla fine diventarono profughi in patria. Costretti a lasciare i loro villaggi, rimasti completamente disabitati in quanto l'esercito israeliano aveva costretto gli abitanti a trasferirsi in un unico villaggio. Le terre e le proprietà, che avevano lasciato dietro di loro, finirono sotto la supervisione del governo e vennero dichiarate proprietà assenteiste. 
I Palestinesi, come nazione, furono "vittimizzati" nel 1948. In quell'occasione persero molto di più che case e proprietà. Persero una patria. La coscienza palestinese - anche di coloro che non furono espulsi o non fuggirono nel 1948 - è stata travolta, plasmata da questa grande tragedia. 
Negli corso degli anni l'UNRWA (the United Nations Relief and Work Agency) ha costantemente rivisto la definizione del profugo palestinese, fino al raggiungimento dell'attuale definizione. Con essa si dichiara che "Il profugo palestinese è colui che, risiedendo in Palestina da almeno due anni precedenti il conflitto del 1948, ha perso, a causa del conflitto, la casa ed i mezzi di sussistenza, diventando profugo in uno dei paesi in cui l'UNRWA offre accoglienza (Giordania, Libano, Siria, West Bank, Gaza). 
Anche se il numero di profughi che rientrano in questa categoria è aumentato da 914.000 nel 1950 a oltre tre milioni nel 1995, esistevano alcuni gruppi di esuli palestinesi, dal conflitto arabo-israeliano, che non rientravano nella definizione dell'UNRWA. Questi ultimi riguardano alcune centinaia di migliaia di Palestinesi di "villaggi di frontiera", sul lato giordano delle linee d'armistizio, che avevano perso i propri mezzi di sussistenza una volta che erano stati tagliati fuori dai campi sul lato israeliano del confine; in situazioni simili si trovarono alcuni abitanti di Gaza, qualche migliaio di beduini tagliati fuori dalle tradizionali aree di pascolo e alcune migliaia di Palestinesi indigenti, che si trovavano oltre le aree di intervento dell'UNRWA. Agli inizi degli anni `50, c'erano oltre 300.000 persone in queste condizioni e che non rientravano nella definizione di profugo dell'UNRWA: venivano chiamati "altri rivendicatori", che l'UNRWA non era in grado di assistere per mancanza di fondi. 
La guerra del giugno 1967 creò una nuova categoria - circa 800.000 in base ad una stima palestinese, mentre il numero ufficiale dato da Israele era 200.000; questi si trovarono ad essere definiti profughi per la seconda volta, in quanto avevano lasciato la propria casa nel 1948 e, successivamente, la loro residenza temporanea nella striscia di Gaza o nella West Bank. Si trattava di Palestinesi che, ancora una volta, erano fuggiti, per ragioni di sicurezza, con la speranza di poter tornare, una volta che i bombardamenti e gli spari fossero terminati; altri furono catturati al di fuori del paese allo scoppio della guerra; altri ancora a cui fu impedito il ritorno, perché i documenti di viaggio israeliani erano scaduti prima che avessero avuto la possibilità di rinnovarli. 
D'altra parte, i profughi del 1967 non riescono a capire perché è proibito loro il ritorno alle loro case e terre nella West Bank e a Gaza. Volendo fare uno sforzo di comprensione, il ritorno alle proprie case in Israele da parte dei profughi del 1948 potrebbe essere considerato una minaccia alla maggioranza ebraica e all'equilibrio demografico in Israele, ma non si può comprendere perché Israele si opponga al ritorno dei profughi o rifugiati alle loro case nella West Bank o Gaza, che nessuna influenza ha sull'equilibrio demografico in Israele. 
La Dichiarazione dei Principi firmata fra Israele e l'OLP nel 1993, permette di condurre il dibattito, sul problema dei profughi palestinesi, su due livelli. Dei profughi del 1967 si sta discutendo in un comitato a quattro, composto da palestinesi, egiziani, israeliani e giordani. Dei profughi del 1948 si discuterà, presumibilmente, nella fase finale degli incontri fra Palestinesi ed Israeliani. 
Nel corso della propria storia Israele ha adottato tre approcci, tra essi collegati, al problema dei profughi. Primo, mostrare indecisione e temporeggiare di fronte alla richiesta di risposta alle proposte riguardo il ritorno dei profughi palestinesi, in particolare all'applicazione della risoluzione 194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che richiede che venga concesso il ritorno dei profughi palestinesi alle proprie case ed il pagamento di un compenso a coloro che non vogliono ritornare. Secondo, creare dei casi con gli stessi pretesti che Israele usava per affrontare le pressioni esterne della comunità internazionale e, allo stesso tempo, per annullare qualsiasi decisione che non fosse di suo gradimento. Questa tattica, che ha il medesimo approccio che, sin dal periodo precedente al `48, il movimento sionista aveva adottato verso il problema palestinese, rimane la caratteristica più durevole della politica israeliana verso i palestinesi. Terzo, adottare procedure burocratiche che offuschino, se non complichino, la discussione del problema ed impediscano di fatto la realizzazione di qualsiasi procedimento concordato. 
Tre le argomentazioni regolarmente usate da Israele, che vanno a sostegno di queste ragioni. La prima è il problema della sicurezza, abbondantemente usato per giustificare la proibizione del ritorno dei profughi, sia in Israele che nei territori palestinesi. La seconda è il vecchio problema demografico, sempre invocato da Israele per giustificare l'impedimento del ritorno dei profughi palestinesi alle loro case del `48, col pretesto che ciò costituirebbe una minaccia al carattere ebraico dello stato. La terza argomentazione è di ordine legale, usata da Israele e dai suoi sostenitori per controbattere che il diritto al ritorno in patria, come stipulato nella risoluzione 194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, non può essere applicato al caso palestinese. 
All'infuori dell'offerta fatta da Israele nel 1948, dietro pressione degli Stati Uniti, di accettare 100.000 profughi del 1948, da allora Israele non ha mostrato nessun'altra disponibilità del genere. All'epoca l'offerta fu rifiutata dagli arabi perché ritenuta troppo bassa e di conseguenza fu ritirata da Israele. Per circa cinquant'anni, Israele ha costantemente rifiutato persino di trattare del problema dei profughi del 1948, se non all'interno di una risoluzione generale del conflitto arabo-israeliano, che all'epoca si riteneva essere un obiettivo molto lontano. Non deve sorprendere quindi che Israele sia riuscita a collocare il problema dei profughi del '48 in fondo all'agenda della dichiarazione dei principi, lasciandola alle discussioni finali. 
Per quanto riguarda i profughi del 1948, il cui destino entrerà nelle discussioni finali, stando all'accordo di Oslo, non esistono segnali che mostrino che Israele si sia preparata al ritorno di alcun profugo del 1948. Esiste un accordo ufficioso secondo il quale, in determinate circostanze, Israele potrebbe concedere il ritorno di un numero di profughi fra i 50.000 ed i 75.000, una percentuale molto ristretta rispetto ai quasi 2.7 milioni di profughi palestinesi registrati dall'UNRWA; una scelta simbolica volta a placare l'opinione pubblica internazionale. Questa, tuttavia, rimane una possibilità remota in quanto la concessione del ritorno ad un numero, pur esiguo, di profughi viene concepita da Israele come un'ammissione di colpa del loro esodo nel `48, per il quale Israele è responsabile. Alcuni osservatori, per esempio Slomo Gazit, un osservatore israeliano, suggerisce che, come gesto finale _ per porre fine al secolare conflitto con i palestinesi  Israele dovrebbe o accettare di rilasciare una dichiarazione, oppure entrare a far parte di un corpo internazionale, come l'Assemblea Generale presso le Nazioni Unite, la quale dovrebbe approvare una risoluzione, sostitutiva della Risoluzione 194, che prendesse atto della sofferenza umana dei profughi palestinesi. Tuttavia questo gesto non dovrebbe essere considerato un'ammissione di colpevolezza, avendo solo l'intento di prendere atto dei risvolti psicologici e morali del problema dei profughi. 
In altre parole, pur nelle migliori circostanze, la posizione israeliana non può minimamente avvicinarsi a quella palestinese, o a quella degli altri paesi arabi. 
Israele, alla fine, concederà il ritorno ad alcune migliaia di profughi palestinesi della guerra del 1967, dilazionando l'ingresso in un lungo arco di tempo. L'attenzione di Israele sarà rivolta fondamentalmente ai residenti precedenti al 1967 e non a coloro che erano profughi già dal 1948 e si sono trovati respinti per la seconda volta, in conseguenza della guerra del `67, né a coloro che avevano lasciato i territori per un periodo di tempo, per circostanze diverse quali visite, matrimoni, lavoro, studio o altre ragioni. 
Mentre i palestinesi, con l'appoggio di altri governi, continuano a fare riferimento alla Risoluzione 194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, come nel dicembre 1993, gli americani e, da sempre prima di essi, gli israeliani, hanno trattato questa risoluzione come irrilevante nella soluzione del problema dei profughi, all'interno del quadro in cui si stanno svolgendo le discussioni per i lavori di pace. In altre parole, il compito principale è diventato trovare il modo per abbellire, o meglio svilire, la Risoluzione 194 allo scopo di svuotarla ed quindi eliminarla dai documenti delle Nazioni Unite. 
La posizione palestinese è stata, fino ad ora, caratterizzata da debolezza politica, economica ed organizzativa, oltre che da mancanza di coordinamento con gli altri governi arabi e dall'assenza di progetti concreti di vasta portata, in grado di assorbire il ritorno dei profughi, che fossero del `48 o del `67. 
Diventa imperativa, quindi, una discussione onesta ed aperta sul problema dei profughi, all'interno delle comunità profughe palestinesi. Questa dovrebbe includere un plebiscito autonomo che stabilisca quanti profughi vogliono realmente esercitare il diritto di rimpatrio e quanti vogliono rimanere dove sono, purché vengano loro assicurati sicurezza ed un trattamento dignitoso nel nuovo contesto in cui si trovano. La Società Nazionale Palestinese dovrebbe, quanto meno, istituire proprie leggi per il rimpatrio e la cittadinanza. Il fallimento di una soluzione soddisfacente al problema dei profughi, è garanzia del protrarsi del conflitto palestinese-israeliano per un altro secolo.




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Mailto Med Indice del numero 3