Al centro della causa palestinese ci sono i profughi palestinesi. La risoluzione
totale del conflitto palestinese-israeliano ed il raggiungimento di un
accordo di pace globale nel Medio Oriente, significa che, fra i vari problemi,
è necessario affrontare e risolvere quello dei profughi palestinesi.
Il fallimento nel raggiungimento di una soluzione soddisfacente al problema,
costituisce una minaccia costante al raggiungimento di una pace durevole,
della stabilità e sicurezza della regione.
La forza fisica, le intimidazioni psicologiche, il terrore e la legittima
paura per la propria sicurezza, sono le ragioni che stanno dietro l'espulsione
e l'esodo dei profughi palestinesi dalla loro terra, la Palestina, nel
1948. Costretti, dopo la catastrofe del 1948, ad accettare l'insostenibile
fardello dell'esilio, quasi in un tentativo di negare l'esilio, i profughi
palestinesi conservarono le chiavi delle loro vecchie case e gli atti delle
loro terre, insieme a qualsiasi documento attestante un legame con le proprietà
perse. Restavano aggrappati a questi documenti come se dovessero servire
da un momento all'altro. E anche se non servivano, tuttavia erano la prova
che i possessori non erano dei nomadi derelitti, ma gente con uno stato
sociale e diritti, detentori di case e proprietà. Anche coloro che
si erano rifiutati di partire o erano rimasti nelle proprie abitazioni,
a rischio della propria vita, alla fine diventarono profughi in patria.
Costretti a lasciare i loro villaggi, rimasti completamente disabitati
in quanto l'esercito israeliano aveva costretto gli abitanti a trasferirsi
in un unico villaggio. Le terre e le proprietà, che avevano lasciato
dietro di loro, finirono sotto la supervisione del governo e vennero dichiarate
proprietà assenteiste.
I Palestinesi, come nazione, furono "vittimizzati" nel 1948. In quell'occasione
persero molto di più che case e proprietà. Persero una patria.
La coscienza palestinese - anche di coloro che non furono espulsi o non
fuggirono nel 1948 - è stata travolta, plasmata da questa grande
tragedia.
Negli corso degli anni l'UNRWA (the United Nations Relief and Work Agency)
ha costantemente rivisto la definizione del profugo palestinese, fino al
raggiungimento dell'attuale definizione. Con essa si dichiara che "Il profugo
palestinese è colui che, risiedendo in Palestina da almeno due anni
precedenti il conflitto del 1948, ha perso, a causa del conflitto, la casa
ed i mezzi di sussistenza, diventando profugo in uno dei paesi in cui l'UNRWA
offre accoglienza (Giordania, Libano, Siria, West Bank, Gaza).
Anche se il numero di profughi che rientrano in questa categoria è
aumentato da 914.000 nel 1950 a oltre tre milioni nel 1995, esistevano
alcuni gruppi di esuli palestinesi, dal conflitto arabo-israeliano, che
non rientravano nella definizione dell'UNRWA. Questi ultimi riguardano
alcune centinaia di migliaia di Palestinesi di "villaggi di frontiera",
sul lato giordano delle linee d'armistizio, che avevano perso i propri
mezzi di sussistenza una volta che erano stati tagliati fuori dai campi
sul lato israeliano del confine; in situazioni simili si trovarono alcuni
abitanti di Gaza, qualche migliaio di beduini tagliati fuori dalle tradizionali
aree di pascolo e alcune migliaia di Palestinesi indigenti, che si trovavano
oltre le aree di intervento dell'UNRWA. Agli inizi degli anni `50, c'erano
oltre 300.000 persone in queste condizioni e che non rientravano nella
definizione di profugo dell'UNRWA: venivano chiamati "altri rivendicatori",
che l'UNRWA non era in grado di assistere per mancanza di fondi.
La guerra del giugno 1967 creò una nuova categoria - circa 800.000
in base ad una stima palestinese, mentre il numero ufficiale dato da Israele
era 200.000; questi si trovarono ad essere definiti profughi per la seconda
volta, in quanto avevano lasciato la propria casa nel 1948 e, successivamente,
la loro residenza temporanea nella striscia di Gaza o nella West Bank.
Si trattava di Palestinesi che, ancora una volta, erano fuggiti, per ragioni
di sicurezza, con la speranza di poter tornare, una volta che i bombardamenti
e gli spari fossero terminati; altri furono catturati al di fuori del paese
allo scoppio della guerra; altri ancora a cui fu impedito il ritorno, perché
i documenti di viaggio israeliani erano scaduti prima che avessero avuto
la possibilità di rinnovarli.
D'altra parte, i profughi del 1967 non riescono a capire perché
è proibito loro il ritorno alle loro case e terre nella West Bank
e a Gaza. Volendo fare uno sforzo di comprensione, il ritorno alle proprie
case in Israele da parte dei profughi del 1948 potrebbe essere considerato
una minaccia alla maggioranza ebraica e all'equilibrio demografico in Israele,
ma non si può comprendere perché Israele si opponga al ritorno
dei profughi o rifugiati alle loro case nella West Bank o Gaza, che nessuna
influenza ha sull'equilibrio demografico in Israele.
La Dichiarazione dei Principi firmata fra Israele e l'OLP nel 1993, permette
di condurre il dibattito, sul problema dei profughi palestinesi, su due
livelli. Dei profughi del 1967 si sta discutendo in un comitato a quattro,
composto da palestinesi, egiziani, israeliani e giordani. Dei profughi
del 1948 si discuterà, presumibilmente, nella fase finale degli
incontri fra Palestinesi ed Israeliani.
Nel corso della propria storia Israele ha adottato tre approcci, tra essi
collegati, al problema dei profughi. Primo, mostrare indecisione e temporeggiare
di fronte alla richiesta di risposta alle proposte riguardo il ritorno
dei profughi palestinesi, in particolare all'applicazione della risoluzione
194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che richiede che venga
concesso il ritorno dei profughi palestinesi alle proprie case ed il pagamento
di un compenso a coloro che non vogliono ritornare. Secondo, creare dei
casi con gli stessi pretesti che Israele usava per affrontare le pressioni
esterne della comunità internazionale e, allo stesso tempo, per
annullare qualsiasi decisione che non fosse di suo gradimento. Questa tattica,
che ha il medesimo approccio che, sin dal periodo precedente al `48, il
movimento sionista aveva adottato verso il problema palestinese, rimane
la caratteristica più durevole della politica israeliana verso i
palestinesi. Terzo, adottare procedure burocratiche che offuschino, se
non complichino, la discussione del problema ed impediscano di fatto la
realizzazione di qualsiasi procedimento concordato.
Tre le argomentazioni regolarmente usate da Israele, che vanno a sostegno
di queste ragioni. La prima è il problema della sicurezza, abbondantemente
usato per giustificare la proibizione del ritorno dei profughi, sia in
Israele che nei territori palestinesi. La seconda è il vecchio problema
demografico, sempre invocato da Israele per giustificare l'impedimento
del ritorno dei profughi palestinesi alle loro case del `48, col pretesto
che ciò costituirebbe una minaccia al carattere ebraico dello stato.
La terza argomentazione è di ordine legale, usata da Israele e dai
suoi sostenitori per controbattere che il diritto al ritorno in patria,
come stipulato nella risoluzione 194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni
Unite, non può essere applicato al caso palestinese.
All'infuori dell'offerta fatta da Israele nel 1948, dietro pressione degli
Stati Uniti, di accettare 100.000 profughi del 1948, da allora Israele
non ha mostrato nessun'altra disponibilità del genere. All'epoca
l'offerta fu rifiutata dagli arabi perché ritenuta troppo bassa
e di conseguenza fu ritirata da Israele. Per circa cinquant'anni, Israele
ha costantemente rifiutato persino di trattare del problema dei profughi
del 1948, se non all'interno di una risoluzione generale del conflitto
arabo-israeliano, che all'epoca si riteneva essere un obiettivo molto lontano.
Non deve sorprendere quindi che Israele sia riuscita a collocare il problema
dei profughi del '48 in fondo all'agenda della dichiarazione dei principi,
lasciandola alle discussioni finali.
Per quanto riguarda i profughi del 1948, il cui destino entrerà
nelle discussioni finali, stando all'accordo di Oslo, non esistono segnali
che mostrino che Israele si sia preparata al ritorno di alcun profugo del
1948. Esiste un accordo ufficioso secondo il quale, in determinate circostanze,
Israele potrebbe concedere il ritorno di un numero di profughi fra i 50.000
ed i 75.000, una percentuale molto ristretta rispetto ai quasi 2.7 milioni
di profughi palestinesi registrati dall'UNRWA; una scelta simbolica volta
a placare l'opinione pubblica internazionale. Questa, tuttavia, rimane
una possibilità remota in quanto la concessione del ritorno ad un
numero, pur esiguo, di profughi viene concepita da Israele come un'ammissione
di colpa del loro esodo nel `48, per il quale Israele è responsabile.
Alcuni osservatori, per esempio Slomo Gazit, un osservatore israeliano,
suggerisce che, come gesto finale _ per porre fine al secolare conflitto
con i palestinesi Israele dovrebbe o accettare di rilasciare una
dichiarazione, oppure entrare a far parte di un corpo internazionale, come
l'Assemblea Generale presso le Nazioni Unite, la quale dovrebbe approvare
una risoluzione, sostitutiva della Risoluzione 194, che prendesse atto
della sofferenza umana dei profughi palestinesi. Tuttavia questo gesto
non dovrebbe essere considerato un'ammissione di colpevolezza, avendo solo
l'intento di prendere atto dei risvolti psicologici e morali del problema
dei profughi.
In altre parole, pur nelle migliori circostanze, la posizione israeliana
non può minimamente avvicinarsi a quella palestinese, o a quella
degli altri paesi arabi.
Israele, alla fine, concederà il ritorno ad alcune migliaia di profughi
palestinesi della guerra del 1967, dilazionando l'ingresso in un lungo
arco di tempo. L'attenzione di Israele sarà rivolta fondamentalmente
ai residenti precedenti al 1967 e non a coloro che erano profughi già
dal 1948 e si sono trovati respinti per la seconda volta, in conseguenza
della guerra del `67, né a coloro che avevano lasciato i territori
per un periodo di tempo, per circostanze diverse quali visite, matrimoni,
lavoro, studio o altre ragioni.
Mentre i palestinesi, con l'appoggio di altri governi, continuano a fare
riferimento alla Risoluzione 194 dell'Assemblea Generale delle Nazioni
Unite, come nel dicembre 1993, gli americani e, da sempre prima di essi,
gli israeliani, hanno trattato questa risoluzione come irrilevante nella
soluzione del problema dei profughi, all'interno del quadro in cui si stanno
svolgendo le discussioni per i lavori di pace. In altre parole, il compito
principale è diventato trovare il modo per abbellire, o meglio svilire,
la Risoluzione 194 allo scopo di svuotarla ed quindi eliminarla dai documenti
delle Nazioni Unite.
La posizione palestinese è stata, fino ad ora, caratterizzata da
debolezza politica, economica ed organizzativa, oltre che da mancanza di
coordinamento con gli altri governi arabi e dall'assenza di progetti concreti
di vasta portata, in grado di assorbire il ritorno dei profughi, che fossero
del `48 o del `67.
Diventa imperativa, quindi, una discussione onesta ed aperta sul problema
dei profughi, all'interno delle comunità profughe palestinesi. Questa
dovrebbe includere un plebiscito autonomo che stabilisca quanti profughi
vogliono realmente esercitare il diritto di rimpatrio e quanti vogliono
rimanere dove sono, purché vengano loro assicurati sicurezza ed
un trattamento dignitoso nel nuovo contesto in cui si trovano. La Società
Nazionale Palestinese dovrebbe, quanto meno, istituire proprie leggi per
il rimpatrio e la cittadinanza. Il fallimento di una soluzione soddisfacente
al problema dei profughi, è garanzia del protrarsi del conflitto
palestinese-israeliano per un altro secolo.
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