In rotta di collisione
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di Nadia Gambilongo |
Negli ultimi anni le mie energie e quelle dell’associazione si sono concentrate essenzialmente nel lavoro di relazione e di scambio con le culture dell’area del Mediterraneo. L’esperienza dell’incontro e dell’interscambio culturale con le donne mediterranee è stata estremamente ricca e ha dato vita a numerosi progetti di cooperazione, contribuendo significativamente alla costruzione di un importante pezzo del nostro percorso biografico e connotando fortemente la vita associativa. Nell’ultimo anno questo percorso ha avuto bisogno di una ‘pausa di riflessione’, è stato necessario approfondire alcuni nodi fondamentali legati alla relazione ed allo scambio. Le difficoltà nel lavoro di rete sono nate in contesti in cui la disparità di posizione, le asimmetrie nei rapporti hanno avuto il sopravvento. Fermarci per capire meglio, per non farci sopraffare dal vortice delle iniziative e dalle scadenze dei progetti che, a volte, impongo un agire scarsamente meditato, sospendere o rinviare alcune iniziative, è stata una scelta non facile ma ad un certo punto necessaria. E’ stato necessario soffermarsi sui problemi e non solo sui successi. Fermarsi con l’obiettivo di riprendere il cammino con rinnovate energie e maggiore consapevolezza. E’ diventato prioritario, da un certo momento in poi, ricominciare a chiedersi perché ci spostiamo dai nostri luoghi, peraltro difficili, quali sono i nostri bisogni conoscitivi ed esistenziali che ci portano a muoverci dalla nostra realtà, cosa ci aspettiamo dalle altre-i, in che modo contribuiamo con i nostri progetti di cooperazione a migliorare le nostre vite e quelle delle altre-i. In questi anni ci è sembrato facile trovare delle risposte più che plausibili a queste domande: desiderio di conoscenza e ricerca di azioni sempre più efficaci per le nostre politiche sembravano andare nella stessa direzione. Teoria e pratica politica sembravano arricchirsi reciprocamente, così come le nostre esistenze. Dopo ogni viaggio, dopo ogni incontro ci sentivamo più forti, più consapevoli dei nostri destini e del lavoro che andavamo facendo con le altre donne della rete. Al ritorno ogni cosa sembrava assumere un valore diverso, quasi si fosse impreziosita attraverso il lavoro svolto. Il nostro impegno risultava raddoppiato e anche i nostri progetti locali sembravano beneficiarne. Dopo ogni "spostamento" ci sembrava di capire di più della nostra vita e di quella delle nostre amiche. Non si trattava solo di uno spostamento fisico, non era solo un muoversi da un luogo all’altro, ma comportava soprattutto un cambiamento di prospettiva del nostro modo di sentire e di percepire la realtà. Dopo ogni incontro ci sentivamo profondamente cambiate, scambiate. A poco a poco, attraverso i nostri continui riposizionamenti il mondo sembrava, ai nostri occhi, svelarsi. Questo continuo cercare, tentare di capire non è stata solo una sensazione momentanea, il nomadismo non è stata una passione temporanea, ma si è trattato di più di dieci anni di attività e di iniziative concrete di relazione e scambio nel mediterraneo e non solo. Cos’è accaduto? Che cosa ha interrotto o, comunque, messo a dura prova questo ‘meccanismo virtuoso’? E’ successo che sempre più spesso o forse con maggiore irruenza rispetto al passato, che le pratiche delle donne messe in atto per superare i conflitti per aprire nuove strade al confronto ed alle mediazioni sono state interrotte, sorpassate, ed a volte spazzate via dalle azioni di guerra, sempre più diffuse nei territori in cui stavamo lavorando. Palestina, Isreale, Serbia, Kossovo, Albania, Afganistan, non solo aree di conflitto, ma soprattutto facce, volti di donne amiche, vite di persone care stravolte dalla ferocia della guerra. In quei luoghi, l’arroganza della politica internazionale si è affermata con la forza dei muscoli, ma anche con il denaro corruttivo destinato alla cooperazione. Ad un certo punto la politica adottata negli interventi di cooperazione, finalizzati a portare aiuti alle popolazioni in difficoltà, è diventata per noi insostenibile. Guerre e cooperazione internazionale sono diventate un binomio micidiale e, sostanzialmente, all’origine dei nostri interrogativi che via via si sono fatti sempre più laceranti, rendendo di conseguenza titubanti i nostri passi, stravolgendo i nostri programmi e, quel che è più grave, straziando una volta di più la vita delle nostre amiche. Le ultime guerre nei Balcani, l’acuirsi del conflitto in Medio Oriente, le bombe e i pacchi di farina in Afganistan, le sconfitte della cooperazione e della politica internazionale anche delle donne hanno messo profondamente in crisi il nostro percorso e non solo. Teoria e pratica politica hanno smesso di parlarsi. Pratica di relazione e scambio in questi contesti hanno perso di significato. Il lavoro di mosaico nei luoghi difficili è stato spazzato via dal confitto che diventava guerra e che spesso piombava rabbioso alle spalle. La macchina burocratica della cooperazione negli ultimi tempi, inoltre, ha interferito fortemente anche sulle modalità di costruzione delle relazioni: le asimmetrie si sono acuite, sulle disparità si sono rafforzate antiche gerarchie. E’ stato così che il nostro percorso si è fatto più lento; è accaduto, poi, che ad un certo punto ci siamo fermate del tutto. Cercare di capire non è stata una operazione facile, ma piuttosto lunga e laboriosa. Le mediazioni sui conflitti, che si andavano proponendo all’interno della nostra rete, non ci sembravano più così alte. Spesso abbiamo assistito a compromessi veri e propri; può darsi che magari le finalità fossero alte ma il dubbio si è insinuato. Infine, ci siamo chiamate fuori dalla missione ‘Arcobaleno’ e, ci siamo, sostanzialmente, fermate per non perderci. In un mondo dove tutto gira ad un’incredibile velocità oppure non gira affatto, dove viaggiare è diventato un imperativo economico, ma anche culturale e turistico, per cui 'chi si ferma' ha la consapevolezza di essere in qualche modo 'perduto' o, comunque, come si dice più recentemente, fuori dal giro abbiamo deciso di stabilire differenti priorità. Abbiamo incominciato a prediligere il lavoro di scavo, anche al nostro interno, a preferire tempi più lenti, abbiamo compiuto viaggi sempre più ravvicinati, scoprendo così una sorta di nomadismo locale. E’ iniziato, così, "Il viaggio in Calabria". E’ stato inevitabile a questo punto prenderci cura dei nostri luoghi, rafforzare le relazioni locali, sentire maggiormente noi stesse e il nostro corpo. Assaporare vicinanze o distanze ravvicinate. Un altro viaggio, di fatto, forse un po’ più intimo ma non meno complesso ed avventuroso degli altri. Ho verificato quanto sia difficile viaggiare nei propri luoghi, spostarsi in ambienti familiari, muoversi all’interno di spazi già visti e di cui apparentemente si sa già tutto. E’ una prova a cui vale la pena non sottrarsi, quando si ha l’opportunità di farlo, assumendosi tutto il carico di responsabilità che questo comporta, ma anche arricchendosi delle infinite potenzialità che l’occasione permette. La distanza psico-fisica da un luogo, spesso, è di grande aiuto per cogliere le differenze, per fare comparazioni magari anche disinvolte. Nell’osservazione può anche accadere che si entri in sintonia con quel luogo, oppure no, certo il nostro vissuto non è ininfluente nella nascita di simpatie per certi mondi, o per rendere palese la nostra ostilità; ma non c’è dubbio che il coinvolgimento risulta meno pervasivo se si tratta di realtà molto distanti da noi. Di contro, l’"appartenenza", la memoria di quei luoghi, ed un oggi magari un po’ ingombrante, possono interferire fortemente con il ‘viaggio’ nei luoghi in cui si è nate, dove scegliamo o ci capita di vivere. Personalmente, fin da i miei studi giovanili di sociologia ho sempre parteggiato per l’osservazione partecipante, ma adesso sento che una certa dose di distanza, costruita con consapevolezza, diventa necessaria per capire aspetti in cui ci sentiamo molto, forse troppo, coinvolte-i. Questo parziale distacco si può costruire vivendo intensamente in relazione e confrontandosi con mondi diversi dal proprio, su questa esperienza Mediterranea si è misurata per anni, oppure, posizionandosi a giusta distanza utilizzando uno specchio per osservarsi meglio, per vedere noi stesse-i mentre osserviamo i luoghi. Viaggiare all’interno del proprio mondo è un avventura che riserva molte sorprese, ma può diventare anche un percorso molto duro che rende necessario ritornare sui propri passi, può di fatto costituire una sorta di "nomadismo" estremo. Se poi il luogo che si sta esplorando è il proprio luogo e si chiama Calabria, diventa allora una faccenda piuttosto dura che ti interroga ad ogni passo e forse per tutta la vita. Uno dei rischi maggiori consiste nel farsi logorare da certi interrogativi. Esistono alcuni punti di domanda che rimangono tali senza che per anni, secoli si sia trovata una risposta: Corrado Alvaro in un suo articolo scritto degli anni trenta parla di una strada tra S. Luca e Polsi che di lì a poco sarebbe stata costruita. Ho viaggiato a lungo nel reggino, durante i diversi itinerari ho raccolto molte annotazioni ma solo al ritorno ho letto "Gente di Aspromonte". Nel suo libro Alvaro narra la sua terra attraverso il suo sguardo da bambino, siamo all’inizio del secolo. Leggendo quelle pagine memorabili la sorpresa è stata enorme, non solo per l’incredibile bellezza dei paesaggi descritti, ma soprattutto poiché quelle realtà si possono osservare ancora oggi. Il sentiero aspromontano che porta al Santuario della Madonna di Polsi è ancora lì, la gente che popola quei luoghi, il loro modo di vivere, i loro problemi sono ancora lì. La strada non è ancora stata costruita a distanza di 70 anni e dopo decine di delibere governative. Perché? Non è difficile trovare delle risposte, ancora meglio chiedersi a chi conviene che l’Aspromonte continui ad essere terra di nessuno piuttosto che meta turistica e di pellegrinaggio! Quella strada che non c’è, il dibattito infinito sul ponte sullo Stretto, i temi dello sviluppo, costituiscono indubbiamente un pezzo di Calabria su cui le domande si sprecano e si rincorrono in una forma di loop senza pace. Ogni sosta del viaggio in Calabria comporta un lavoro di decostruzione di realtà stereotipate, sclerotizzate e sovrapposte, infiniti costrutti tuoi e degli altri in cui l’opera di smontaggio e di costruzione diventa una sorta di percorso esistenziale lungo tutto una vita. Certo bisogna dire che i viaggiatori del Grand tour dell’ultimo secolo non ci sono di grande aiuto nel nostro esercizio di decostruzione delle realtà stratificate, più spesso aggiungono pregiudizi a pregiudizi, così come numerosi politici ed osservatori contemporanei. Realtà stratificate, le une dentro l’altra, il rischio più forte è di entrare in una sorta di circolo vizioso in cui non poche-i illuminate-i si sono perse-i. Il senso di responsabilità può essere opprimente, eccessivo, i sensi di colpa atavici dei calabresi possono essere letali. La fatica di combattere fatalismi e vittimismi ti può sfinire, ugualmente la proposizione ottimistica di nuove iniziative senza presupposti ti può schiacciare. Ma, si tratta di un lavoro di ricerca dentro e fuori di sé a cui personalmente penso di non potermi sottrarre. Tralaltro, occuparsi dei conflitti degli altri, senza contestualmente lavorare sui propri, non costituisce certo una "buona pratica". Il consumismo frenetico di oggetti e di esistenze, un certo turismo di massa, una cooperazione sbrigativa ci spinge sempre più verso nuovi obiettivi e nuove mete, verso altri luoghi sempre più lontani, "il qui ed ora" può costituire, invece, un utile antidoto a queste tendenze e condizionamenti esasperanti. Ma per vedere quel che ti circonda, per osservare quello che hai sotto gli occhi ogni giorno, c’è bisogno di occhi nuovi che hanno visto lontano, sensi che hanno percepito altri odori ed umori, occhi che si sono specchiati in altri occhi. Occhi che hanno visto i propri occhi.
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