Cosa abbiamo fatto a Washington il 16 Aprile
di Beth Trigg, dell'Asherville Ecofeminist Teamsters
traduzione ed adattamento di Maria G. Di Rienzo

Care e cari,

vi scrivo per raccontarvi la mia esperienza a Washington, durante le azioni della mobilitazione per la Giustizia Globale, un massiccio raduno che ha tenuto insieme gente dalla provenienza diversissima per protestare contro la globalizzazione delle corporazioni e per chiedere al Fondo Monetario Internazionale ed alla Banca Mondiale di cambiare le loro politiche che opprimono i popoli del terzo mondo e concentrano il potere nelle mani delle multinazionali.

Ho visto solo in parte i resconti che i media del mainstream hanno fatto della nostra mobilitazione, ma quel poco che ho visto mi fa sentire costretta a raccontare la mia storia. L'intera gamma dei resoconti televisivi e giornalistici che ho potuto visionare si focalizza sullo scontro violento fra polizia e manifestanti. La mia esperienza personale è totalmente diversa da ciò che ho visto sui media: ciò che io posso testimoniare è la condivisione del potere della non violenza e delle decisioni basate sul consenso democratico, nonché la bellezza delle persone che si sono unite per creare il cambiamento. Credo davvero che siamo stati parte di un momento storico e rivoluzionario.

Giunta durante il primo giorno al Punto di Convergenza, sono stata sopraffatta dallo spirito d'amicizia e solidarietà che persone completamente sconosciute le une alle altre in precedenza condividevano, ed anche dall'incredibile livello di organizzazione che riusciva a coesistere ed interagire con un'atmosfera gioiosa. Il Punto di Convergenza era una combinazione fra un carnevale ed una scuola per il cambiamento sociale. Dozzine di pupazzi giganti, bellissimi, erano appoggiati ai muri. Una scimmia di cartapesta alta 20 piedi ed un enorme cavallo d'argento ci accoglievano all'ingresso. C'erano biciclette comunitarie, marchiate di spray color oro, a disposizione di chiunque volesse usarle per spostarsi. La gente divideva il cibo, discuteva sulle strategie da utilizzare, organizzava seminari. C'era un manifesto a cui si aggiungevano via via i seminari organizzati, su soggetti quali l'azione non violenta, la medicina di strada, gli aspetti legali della disobbedienza civile. Happening artistici spuntavano ovunque.

I piccoli gruppi per affinità erano radunati a discutere le azioni da intraprendere. La parola d'ordine che passava da gruppo a gruppo era: "Non abbiamo capi", e si sentiva veramente che ogni persona aveva voce nel processo decisionale. Ecco come funzionava: ogni gruppo mandava un/una sua rappresentante agli incontri del Consiglio, ove venivano prese le decisioni comuni. I gruppi per affinità, che si originarono fra gli antifascisti spagnoli nel 1930, sono un sistema estremamente funzionale nell'organizzare azioni dirette e lavorano bene attraverso il processo del consenso condiviso che ci deriva da molte altre fonti: la tradizione quacchera, il femminismo e l'anarchia per nominarne solo alcune.

Sono andata alla mia prima riunione del Consiglio venerdì notte. Ero vicina alle lacrime, nel vedere così tanta gente, gente così diversa che pure lavorava insieme alla costruzione di una strategia comune per cambiare il mondo: sindacalisti, punks anarchici, ambientalisti, streghe, studenti universitari, nonne, pacifisti, avvocati, artisti, insegnanti… Il processo decisionale era rispettoso, inclusivo ed efficiente. Poiché era vero che là dentro non c'erano "capi", ognuno di noi si sentiva tale: la leadership ed il potere erano condivisi fra tutti.

Sempre venerdì, durante il giorno, ci eravamo istruiti sulla globalizzazione, grazie al susseguirsi di 37 oratori/oratrici da tutto il mondo. Jerry Mander, e molti altri splendidi uomini e splendide donne, parlarono della Dissacrata Trinità composta da Banca Mondiale, FMI e WTO all'interno di una chiesa metodista. Vandana Shiva era con noi. Ralph Nader tenne un discorso (e non sembrava il solito politichese). Anuradha Mittal di "Food First" ci ringraziò per essere venuti a dare un calcio nel didietro a chi lo meritava. Ascoltammo Jerry Mander spiegarci il collegamento fra militarizzazione e globalizzazione: "La mano nascosta della globalizzazione non può funzionare senza il pugno nascosto. Mc Donald ha bisogno di McDonnel Douglas".

Un'illuminazione, per me, fu udire Njoki Njehu di "50 Years Is Enough" ("Cinquant'anni sono sufficienti"): cominciò con un richiamo all'azione "L'oppressione è globale, così dev'essere globale la nostra resistenza"; ricordò a quelle/quelli di noi che erano nel sindacato che "…non sono i lavoratori delle maquiladoras i nemici dei lavoratori statunitensi che perdono il loro lavoro. I nemici non sono i compagni lavoratori, sono i possessori del capitale." Ella ci riportò anche una citazione di Howard Zinn: "Quanto sarebbe differente la nostra vita se invece di ascoltare ogni giorno gli indici di borsa, sentissimo parlare dei 34.000 bambini che giornalmente muoiono per malattie curabili." Njoki chiuse con le seguenti parole, e la sua voce potente riempì la chiesa d'emozione: "Lottare per la giustizia non è una scelta. E' un imperativo morale."

Più tardi, Kevin Danaher rispose a quelli che chiedono: "Ma con cosa vorreste sostituire la Banca Mondiale, il FMI, il WTO?". La questione, egli disse, è che chiedere questo è come chiedere: "Cosa metteresti al posto del cancro? L'unica risposta è: l'assenza del cancro." Essere presenti all'azione del 16 aprile ci ha dato anche un'altra risposta: noi abbiamo testimoniato che un'alternativa è possibile e si chiama potere nelle mani della gente, piuttosto che in quelle delle corporazioni. Noi abbiamo dimostrato che è possibile per la gente lavorare insieme, motivati dalla compassione e dalla solidarietà, per operare un cambiamento nel nostro mondo.

La visione del potere nelle mani delle comunità di Vandana Shiva e la visione di Starhawk sul consenso condiviso come mezzo per esercitare questo potere sono diventate reali durante il fine settimana che abbiamo passato a Washington.

C'era un intero nuovo linguaggio da apprendere, in tale processo: i gruppi per affinità, ad esempio, potevano essere "stanziali" o "mobili". I gruppi mobili erano chiamati "squadre volanti" ed erano raggruppati in "grappoli" che potevano unirsi in "mega-grappoli". Ogni gruppo stazionario si prendeva cura di una "fetta" del territorio. L'area attorno al FMI ed alla Banca Mondiale era divisa come in fette di torta, ognuna occupata da un "mega-grappolo". Il mio gruppo per affinità era composto da 9 persone ed un bellissimo pupazzo, Esperanza, raffigurante una donna indigena in un meraviglioso abito fluente, e con un bavaglio sulla bocca su cui era scritto "Fondo Monetario Internazionale". Facevamo parte del "grappolo" di Asherville, assieme ad altri gruppi e come "grappolo" facevamo parte della Fetta B, che copriva l'area direttamente a sud della Banca Mondiale.

La notte prima dell'azione, ci siamo riuniti come grappolo di Asherville ed abbiamo messo a punto i nostri piani. Ci siamo allenati alle tecniche di azione non violenta, abbiamo discusso il supporto logistico e ci siamo scritti sulla pelle, con pennarello indelebile, il numero di telefono del Collettivo Legale di supporto "Midnight Special". Eravamo preparati a rischiare l'arresto ed a praticare la solidarietà in prigione; non intendevamo essere rilasciati dietro cauzione ma, se arrestati, avevamo deciso di restare in galera e di testimoniare là con il nostro numero.

La nostra Fetta si radunò presso il Logan Circle alle 5 del mattino di domenica. Ci dirigemmo verso le nostre aree, per bloccare tutte le intersezioni. Il mio gruppo bloccò l'incrocio fra la 16^ e K. Street. Formammo linee con gli altri gruppi, di fronte alle barricate della polizia, per impedire ai delegati di raggiungere i luoghi degli incontri. Un piccolo gruppo si incatenò davanti alla polizia ed il resto di noi formò blocchi umani.

All'inizio, molte e molti di noi di Asherville ci sentimmo preoccupate/i dell'atmosfera di panico ed eccitazione disordinata che sembrava crescere nella nostra zona. C'era un suono di tamburi tipo "marcia militare" e c'era un piccolo gruppo di "macho", di uomini che guidavano un'energia caotica, con slogan e canti molto violenti. Cominciammo a discutere fra noi su come alterare questo tipo di energia mentre i primi delegati tentavano di passare il blocco. Furono circondati da questi individui che urlavano, li minacciavano, non offrivano loro alcuna via d'uscita e li terrorizzavano. Questo approccio innervosì la polizia, che cominciò a tirar fuori i manganelli e a tentare di tirar fuori i delegati intrappolati, picchiando i dimostranti e indossando le maschere anti-gas.

Dopo un paio di incidenti di questo tipo, incluso un episodio che vide coinvolta una guardia della sicurezza Wackenhut (ovvero dell'esercito privato che sorveglia le installazioni nucleari statunitensi: chissà che ci faceva alla Banca Mondiale!), il sentimento che pervadeva la folla era di estrema tensione e sfiorava il limite. Pensammo che se si continuava così ci sarebbe stato un crescendo che avrebbe facilmente portato allo scatenarsi della violenza poliziesca.

A questo punto, il mio gruppo per affinità riconobbe che ciò che mancava erano delle persone che ricentrassero gruppi più vasti sulla nonviolenza; riconoscemmo anche che dovevamo supplire a tale mancanza e diventammo mantenitori della pace. Cominciammo a circolare tra la folla, parlando della nonviolenza e ricordando le tattiche specifiche su cui avevamo concordato il giorno prima: ricordammo loro come mantenere la posizione seduta se i poliziotti si fossero mossi contro di loro, come riprendere qualcuno che è stato isolato dal gruppo con una tecnica chiamata "assorbimento", come distogliere l'attenzione dalla violenza, ecc.

Parlammo del fatto di non permettere che fosse la polizia a decidere le nostre tattiche o le nostre scelte, di come mantenere un'attitudine di pace e gentilezza; ricordammo che avevamo deciso di non usare gli attrezzi del padrone, per smantellare la casa del padrone… Ricordammo a ciascun partecipante al blocco di non circondare i delegati senza lasciar loro una via d'uscita e di lasciar fuori l'odio e l'ostilità dai loro approcci con le persone.

Parlammo dell'efficacia provata di una disciplina di nonviolenza, parlammo di Gandhi e del Movimento USA per i Diritti Civili. Ciascuna delle persone con cui io ho parlato mi ringraziò per averla aiutata e molte dissero di non aver mai partecipato ad un'azione diretta prima di allora e di sentirsi, perciò, timorosi ed incerti.

Proprio mentre avevamo iniziato questo lavoro di pace, un gruppo per affinità composto da donne con i capelli grigi, fra le quali era Starhawk, ci raggiunse. Sapevamo che si trattava di donne con alle spalle una lunga storia di azioni per il cambiamento sociale e dotate di una profonda comprensione dei fini e dei mezzi della nostra azione. Chiedemmo loro di aiutarci a rifocalizzare la folla positivamente. Esse cominciarono a suonare i loro tamburi, intonarono canti a cui la folla si unì, e tessero una "ragnatela" protettiva attorno all'incrocio con fili colorati. Assieme a loro, cantammo le parole "Riempiremo le strade di giustizia". Il nostro gruppo per affinità continuò il suo capillare training nonviolento fra la gente. Altri ripresero la nostra strategia, e gridarono "Lasciate loro una via d'uscita!" ed anche "Odiate le azioni, non le persone!"… L'energia prese a mutare. Da tesa e piena di paura divenne di nuovo forte e focalizzata.

Impedimmo in questo modo a molti delegati di raggiungere gli incontri della Banca Mondiale. Se c'era un momento in cui potenzialmente la violenza poteva scatenarsi, o se un delegato tentava di forzare con violenza il nostro blocco, l'intera folla cominciava ad intonare l'Om e si poneva quietamente in posizione di confronto. Mi sentii sopraffatta dall'emozione: ricordai uno dei miei eroi personali, Allen Ginsberg, e la sua veglia di meditazione a Chicago, nel 1968, mentre fronteggiava la brutalità della polizia. Ho visto con i miei occhi quanto la tattica nonviolenta sia potente e funzioni.

Focalizzarsi sul perpetuatore della violenza, in qualsiasi modo, gli conferisce il potere di controllare le nostre azioni tramite le sue. Noi, invece, scegliemmo di mantenere l'attenzione sulle nostre coraggiose sorelle e sui nostri coraggiosi fratelli che si stavano ponendo sul sentiero del confronto. I delegati non sapevano come reagire a queste tattiche non violente e finivano per girarsi e tornare da dove erano venuti.

Durante tutto il giorno dovemmo rispondere ai cambiamenti che si verificavano e dovemmo prendere decisioni al momento. Usammo il modello del Consiglio, per essere certi che ogni voce potesse essere ascoltata. Avremmo permesso ai giornalisti di passare? Avremmo mantenuto la nostra posizione, se attorno a noi gli altri gruppi fossero stati dispersi? Avremmo acconsentito o no a quelli che volevano erigere una barricata di lamiera e bidoni? Come ci saremmo confrontati con i poliziotti, se fosse cominciata la violenza?

Il nostro gruppo per affinità fece girare queste domande: tenemmo un consiglio fra gruppi. Starhawk disse: "La cosa più straordinaria è proprio il fatto che stiamo tenendo questo consiglio. Siamo tutte e tutti coinvolte/i nel processo decisionale e stiamo scegliendo cosa fare in questa maniera anche se siamo sotto pressione." Ed era vero: ognuno poteva far udire la propria voce e proprio perciò decideva volontariamente di rispettare la soluzione che il gruppo alla fine sceglieva e di aderirvi. Sia gli individui che le comunità vennero celebrati ed onorati. Sono più che mai convinta, dopo questa esperienza, che la nonviolenza ed il consenso condiviso sono molto più potenti dei facili modi della violenza e della sopraffazione e sono molto, molto più rivoluzionari.

Mentre il giorno trascorreva avemmo diversi momenti di profonda emozione. Quello che mi colpì di più fu quando il gruppo del Movimento Indiani Americani venne al centro del nostro incrocio con un grande tamburo e l'intero gruppo cominciò a suonare e cantare. L'intera folla rimase in silenzio. Persino i poliziotti erano impressionati. Molti di noi piansero. Stavamo testimoniando insieme la bellezza e la dignità delle culture indigene e di tutti i popoli che l'imperialismo ed il capitalismo hanno cercato di cancellare dalla storia.

Bruciammo salva per la purificazione e rimanemmo attorno al grande tamburo, in una veglia per la decimazione dei popoli indigeni, rinforzando la nostra decisione di impedire la loro ulteriore distruzione nel nostro paese e nel mondo. Durante il resto del giorno, gruppi mobili di clowns e musicisti vennero a risollevare i nostri spiriti; un gruppo di ragazze e donne ornate come alberi ci fece visita. Un suonatore di banjo ci regalò le canzoni di Woody Guthrie. Le cheerleaders radicali ci guidarono negli slogan anti-corporazioni. Tenemmo la nostra posizione in maniera non violenta e con pieno successo fino al pomeriggo, quando sapemmo che la polizia aveva disperso molti altri blocchi, aprendo un passaggio che non rendeva più necessaria la nostra presenza in quel luogo. Allora raggiungemmo la grande manifestazione di strada, cantando: "Chi siamo noi? Noi siamo la gente!"

Di fronte alle istituzioni che operano in segreto, senza ascoltare le voci delle persone le cui vite saranno poi affette dalle politiche scelte dalle istituzioni stesse, noi stavamo reclamando democrazia, diritti umani, un ambiente sano e sicuro, giustizia economica.

Nelle strade e nei nostri procedimenti interni, noi stavamo chiedendo e mettendo in atto una nuova visione per le nostre comunità e per il mondo. Ho avuto la sensazione che sì, la rivoluzione era iniziata: un processo in formazione, giornaliero, che sarebbe continuato… ed io ne ero stata parte, e ne sono parte!