Silenziose
esplosioni
|
di Monica Lanfranco
|
Si nasce in un conflitto, e quello originario è inscritto senza possibilità di scampo nel processo della nascita. Riguarda sia maschi che femmine, ma nel secondo caso la bambina che sta nascendo sperimenta con la madre il primo scontro con un’altra simile. E’ il conflitto tra il corpo che ci ha ospitato e il nostro, che affronta un’arduo percorso, simile spesso ad una lotta, spinto a farsi strada nell’ineluttabile desiderio di venire alla luce. Sono giovani donne tra i venti e trent’anni; alcune, (ma sono una minoranza), già con figlie e figli. Oppure sono donne più adulte, tra i quaranta e i cinquanta, con uno o più lavori alle spalle, in proprio o coinvolte in un impiego fisso, con gradi diversi di impegno e responsabilità nella presa di decisione all’interno del collettivo di lavoro. In un discreto numero hanno dato vita a imprese con altre, non di rado hanno alle spalle un patrimonio personale legato alla partecipazione nel movimento delle donne, e tutte sono comunque animate da diversi interrogativi e dubbi, divise tra curiosità e diffidenza verso chi pone la differenza di genere come il fulcro, il cuore e lo strumento prioritario dell’analisi della realtà. Sono sedute davanti a te, in ascolto vigile e talvolta sospettoso, tutte con una aspettativa: uscire dal monte ore di formazione con qualcosa in più: o confermate nelle proprie opinioni, fieramente contrarie alle ostiche ‘teorie della differenza’ e alla ancora più nebulosa ‘metodologia di genere’, oppure al contrario rinfrancate nella convinzione che il genere non può che essere l’asse centrale della propria ricerca, sia nella vita che nel lavoro. Saprai che le hai toccate, raggiunte nella mente e qualche volta anche nel profondo, e che non hai fallito nel tuo lavoro di formazione, quale che sia la loro scelta in questa partita sull’approccio alla conoscenza, se tutte saranno riuscite a comunicare con te. E non sempre la missione avrà esito positivo. Da alcuni anni faccio quello che si definisce "lavoro di formazione di genere" : confesso che non so bene cosa sia veramente, perchè in realtà mi pare di fare la stessa cosa che avviene ogni giorno per dieci mesi l’anno nelle aule scolastiche. So,lo la materia è inconsueta: insegno, trasmetto, traccio alcune strade maestre, fornisco informazioni, bigliografie, sentieri di lettura su quanto conosco della storia e del patrimonio del movimento delle donne. E da tre anni sto approfondendo il tema del conflitto tra donne, grazie ad una ricerca e ad un corso pilota progettato e pensato assieme a Paola Repetto. Lo scenario più stimolante, e a tratti inquietante per la desolante assenza di stimoli che sembra non abbia toccato le loro menti e vite, è comunque quello delineato appena sopra, ovvero il pubblico di donne che poi a loro volta lavora nella fitta schiera degli enti di formazione, una giungla lievitata grazie anche alla faticosità che comporta l’accesso ai fondi destinati alla formazione stessa. Ecco la prima verità che mi è balzata agli occhi iniziando il lavoro sul conflitto: in un mondo dove la tecnologia ha permesso agli umani di comunicare in tempo reale attraverso la Rete, e nel quale bastano un dito e modem per raggiungere l’emisfero opposto, sono milioni le persone in carne ed ossa che hanno smesso di parlare davvero tra loro (e di parlarsi nell’intimità di ciascuna); gli effetti di questa assenza di comunicazione si vedono anche da questo particolare osservatorio, e prendono forma attraverso gli imbarazzanti silenzi che seguono le sollecitazioni a prendere la parola, o a lavorare proficuamente in gruppo, o nell’incepparsi del discorso reso claudicante dall’assenza di pratica ad esprimersi. Banale ma doveroso il riferimento all’analfabetismo di ritorno del quale la televisione è responsabile, grazie all’uso strumentale e politico degli ultimi 20 anni di ‘democrazia’ televisiva. Eppure ogni anno nel nostro paese una piccola ma rilevante schiera di donne prende parte a corsi di formazione, a diversi e vari livelli: il panorama di utenza varia dalle donne in cerca di prima occupazione a quelle già occupate per finire con coloro che rientrano nel mercato del lavoro dopo un’assenza dovuta, quasi sempre, alla lunga pausa dedicata al lavoro di cura. Una stima reale dei numeri non esiste ancora, anche perché un vero e proprio censimento dei corsi nessuno si è preso il disturbo di farlo: si può dire con buona approssimazione che diverse centinaia di donne annualmente entrano in formazione: piccoli gruppi di lavoratrici autonome, insegnanti, lavoratrici dipendenti, e perché no studentesse specializzande. Si fa un gran parlare di formazione, e in particolare di formazione rivolta alle donne: l’esistenza dei corsi Now e di altre occasioni formative, finanziate con soldi pubblici o privati attraverso stanziamenti anche generosi, in ossequio alla cultura delle ‘pari opportunità’, è ormai cosa nota a chi, anche vagamente, si muove nel mondo del lavoro. Ma il fatto che la cultura di riferimento sia quella legata al concetto del ‘gender equal opportunities’ non deve ingannare: l’appello alle ‘pari opportunità’ è più che altro un grande principio ispiratore al quale, come ad una coperta, chiunque si può rivolgere, tirandone i lembi a seconda delle necessità. Il problema, questo sì davvero grosso e ancora del tutto aperto, è non tanto il quanto ma il come la formazione risponda alle esigenze del soggetto donna. In poche parole: con che tipo di contenuti, offerti in che forma e con quale spirito viene proposta la formazione alle donne. La quasi totalità dei corsi di formazione che si fanno oggi in Italia, pur differenti fra loro, hanno un unico comune denominatore, tanto paradossale e privo di logica quanto non evidenziato e stigmatizzato: si rivolgono alle donne senza essere pensati originariamente con modalità di genere, ovvero non tenendo conto del soggetto al quale sono diretti. Mutuano contenuti, e soprattutto modalità e strumenti, dai corsi destinati ad un pubblico misto, o maschile, proponendoli così come sono, o quasi, al pubblico delle utenti. E grazie a questa assenza di attenzione all’ovvia differenza tra i generi qualunque ragionamento che metta in discussione la metodologia vigente desta sospetti, fastidio, noia. O peggio: facciamo un esempio preso dalla realtà. Sono tutte parole In un recente corso a dieci future sportelliste, che dovranno fornire materiale informativo al sempre più crescente pubblico di aspiranti imprenditric,i dopo circa due ore di panoramica su quanto è cambiato nella società italiana, e nel mondo occidentale, circa i ruoli sessuali, una delle corsiste ha candidamente chiesto se sarei stata in grado di fornire, (per favore in sintesi), una definizione di ‘metodologia di genere’. La domanda mi sembrava sospettosamente prematura, e quindi ho a mia volta domandato perché tanta fretta di sapere una definizione precisa, visto che ci eravamo appena conosciute. La corsista ha svelato l’arcano: un’ altro docente del corso aveva affermato che quelle ore della astrusa materia erano state introdotte per ‘acaparrarsi il finanziamento’. Da qui la curiosità. Un attacco rudimentale, rozzo e decisamente fuori luogo da parte di un docente ignorante, certo; ma anche un segnale. I contenuti nuovi portati da formatrici non tradizionali non solo mancano di autorevolezza agli occhi della tradizione formativa di quasi tutti i formatori (e anche di molte formatrici), ma possono soltanto essere utili come fumo negli occhi per mungere denaro. Per sintetizzare in una parola efficace e comprensibile assomigliano molto ad una truffa, in questa visione delle cose. Eppure, come ha sottolineato Mary Bateson nel suo bellissimo ‘Comporre una vita’ "il carattere distintivo della vita contemporanea è il cambiamento". E nessun cambiamento, né culturale, politico, sociale o esistenziale è immune dall’attraversare dei conflitti. Lavorare rende nervose Le donne conoscono il conflitto, ma difficilmente riescono ad affrontarlo senza coinvolgere sfere che non appartengono immediatamente all’ambito del conflitto stesso; ne escono molto più dilaniate rispetto ai disastri che si verificano tra uomini, o tra donne e uomini, complice nel primo caso il maggior ‘attaccamento all’obiettivo’ da parte degli uomini, galeotta la sessualità maggiormente esplicitabile tra i diversi generi nel secondo caso. Si aggira silenzioso, subdolo, camuffato da malesseri che in molte donne si materializzano nel corpo: herpes, brufoli, mal di testa, indebolimento generale. Le somatizzazioni, alle quali in tante, almeno in una occasione nella vita, siamo state soggette. Il conflitto è lì, annidato come un embrione pronto a crescere seguendo tempi indipendenti al corso degli eventi all’esterno. Il suo modo di svilupparsi dipende da molti fattori: la strenua capacità di rimozione in possesso delle attrici della scena conflittuale, l’abilità nel riconoscerlo, la possibilità di nominarlo e isolarlo da altri sentimenti limitrofi, ma non esattamente pertinenti. Come nell’amore verso gli uomini sono in molte le donne che confondono passione e oblatività, coniugando il sentimento amoroso con funzione accuditiva (ti amo e quindi ti lavo e stiro le camicie), assumendo nello stesso tempo (e nella medesima esistenza) il ruolo di compagne e domestiche anche quando questa funzione potrebbe essere o condivisa o addirittura cancellata da servizi esterni, così nel rapporto tra colleghe scatta un’equazione diabolica e foriera di disastrosi risultati: se non siamo d’accordo, se confliggiamo, appunto, allora non possiamo più convivere nel nostro progetto comune. L’equazione diviene poi letteralmente devastante se, oltre e prima del rapporto sul lavoro le confliggenti avevano un passato di amicizia, di affetto e di condivisione. Più è alto il livello e il patrimonio della relazione affettiva più complesso, tortuoso, e doloroso, è il conflitto , perché una delle traduzioni possibili della situazione diventa: "non sei d’accordo con me, quindi non sei più mia amica". Non c’è genere senza lingua ‘Ministra’?: Suona male. ‘Direttrice’ evoca fantasmi di signorine rigide alla testa di asili nidi, segretaria indica solo e rigorosamente colei che attende ordine dal boss, ( un’amica sostiene che solo nel momento in cui una donna assumerà la testa di una formazione politica si potrà finalmente dire segretaria con un’altro significato): insomma dire le donne nelle professioni usando il femminile è davvero ardua impresa. Essere nominate, questo è il problema. "Non si usa la sessuazione del linguaggio perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare memorabili, degne di memoria, degne di entrare nella storia in quanto donne, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo dell’oscurità della propria. Questo infatti è il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola: trasmettere oggi della nostra società è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere. Se non abbiamo nome e siamo possesso di un uomo, dell’etnia, della nazione, della religione, possiamo essere violentate nei molti modi in cui ciò avviene: se abbiamo nome e potestà di noi stesse la cosa è più difficile. Assume intero il peso della sua gravità, può essere detta offesa alla persona, violazione di un corpo nominato: finchè non abbiamo nome, e non possiamo trasmettere di noi individuati cammini il nostro posto nella storia può essere solo legato ad aventi tragici, doloroso, oppressivi". Così afferma Lidia Menapace nella postfazione di Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d’oggi. L’esigenza di sessuare il linguaggio, incrinando con la pratica linguistica la onnipresente cultura del neutro non è un vezzo di poche intransigenti femministe: la prima ministra per le pari opportunità di questo paese ha addirittura emanato una direttiva, circolata nelle scuole italiane e poi anche negli uffici pubblici, nella quale si affermava la doverosità sia nell’istruzione di base come nella pratica quotidiana dello stato dell’uso del maschile e del femminile. la conseguenza dovrebbe essere una nuova modulistica, nella quale donne e uomini siano egualmente nominati, così come, solo per fare un esempio, nelle scuole dovrebbe scomparire la dicitura ‘scienze dell’uomo’, materia che si studia alle elementari. Eppure nulla o quasi si è mosso, e le malcapitate cittadine continuano ad aggiungere come unico inutile polemico gesto una gambetta sui moduli degli uffici pubblici di ogni ordine e grado. Il conflitto è iscritto nell’origine Si nasce in un conflitto, e quello originario è inscritto senza possibilità di scampo nel processo della nascita. Riguarda sia maschi che femmine, ma nel secondo caso la bambina che sta nascendo sperimenta con la madre il primo scontro con un’altra simile. E’ il conflitto tra il corpo che ci ha ospitato e il nostro, che affronta un’arduo percorso, simile spesso ad una lotta, spinto a farsi strada nell’ineluttabile desiderio di venire alla luce. Alcune studiose americane, citate nel suo ‘Il parto a casa’ da Sheila Kitzinger, facevano notare, osservando il non ancora chiarito fenomeno del ‘dolore nel parto’ , assente del tutto o quasi in alcune donne di determinate culture, che il corpo materno rappresenta l’unico caso in natura nel quale un essere estraneo immesso ‘arbitrariamente’ non viene rigettato. Al contrario, nei trapianti di organi, avviene il rigetto e spesso questi delicati interventi falliscono proprio perchè, anche se l’operazione è riuscita perfettamente, il corpo si ribella all’estraneo immesso, seppur salvifico. Nella gravidanza, invece, il corpo accoglie e nutre senza aggressione il feto/estraneo che è di fatto alla stregua di un organo presente senza ruolo, e quindi inutile. L’anomalia permane per alcuni mesi, e poi accade qualcosa. Al momento del parto, quando il tempo biologico stabilito per ciascuna specie mammifera scade, ecco scattare il conflitto: le studiose osservano che il corpo materno riacquista la memoria dell’errore originario, compiuto nell’avere accolto l’intruso, e si ribella, dando vita ad un percorso di espulsione violenta ineluttabile e dolorosa. "Fuori da me- sembra dire- ora è troppo tempo che sei qui, devi uscire". Lo studio osserva che l’effetto di questo comando è quello di una dilatazione che sembra non avere fine, sin a quando il feto viene finalmente espulso. Da qui il dolore, spesso terribile, del travaglio, nel quale il processo di espulsione sembra carico di tutto la fatica di aver trattenuto sino a quel momento la violenza della reazione non avvenuta all’intrusione originaria. La valenza simbolica di questo conflitto, doloroso nel corpo e anche nella mente, (perchè certo c’è nella madre la curiosità e la gioia dell’incontro con la sua creatura, ma c’è anche l’evento traumatico del primo e definitivo distacco dopo la fusione dei 9 mesi di gravidanza), ci è d’aiuto per cominciare a individuare le coordinate del discorso sul conflitto. ‘Conflitto’, ‘confliggere’, ‘conflittualità’: parole affini, nel senso come nell’etimologia, ad un’altra assai evocativa: ‘confine’. E non è forse vero che in ogni conflitto ci sono in gioco dei confini da negoziare, volta per volta da oltrepassare, o difendere? E’ da quel momento, quello della separazione primaria, che la vita in ogni sua manifestazione ci propone di schierarci dall’una o dall’altra parte rispetto a questi limiti, ed essa stessa è un percorso di scelte e occasioni fortuite nelle quali misurarsi con distanze e varchi da oltrepassare, o da aggirare. Nessuna donna è mai stata immune dall’eredità relazionale acquisita attraverso il rapporto con la madre. Nel suo intenso ‘Amiche-nemiche – quando madre e figlia non riescono a capirsi Victoria Secunda cerca una strada interpretativa e una svolta significativa alla relazione conflittuale tra madre e figlia. "Non possiamo riscrivere la storia, ma possiamo costruire il futuro, cercando di non diventare a nostra volta madri incapaci di provare affetto per i propri figli, o per gli amici, i colleghi, i mariti. Nessuna figlia vuole sentirsi non amata, nessuna giovane donna vuole pensare di non poter diventare una buona madre, e nessuna madre vuole credere di avere fallito nel suo compito di madre. Quando una madre e una figlia adulta riescono ad andare al di là della loro diffidenza, quando riescono ad andare al di là delle accuse il potenziale per la guarigione è enorme. Niente può mai spazzar via l’infanzia – ha scritto Simone de Beauvoir. E, se questa frase da un lato è evocativa del patrimonio di ricchezza e di speranza della quale è carica la prima fase della vita. Non è da dimenticare che è proprio in questo momento iniziale della vita di ogni essere umano che affondano le radici della nostra capacità di misurarci con il conflitto insito nell’esistenza e nelle relazioni. Parlare di conflitto sembra essere facile, perchè appena lo si nomina il coro di consensi fa capire come ci sia comprensione immediata sull’oggetto in questione: chi non ha mai avuto un conflitto? Quale essere umano, sin dalla più tenera età, può affermare di non aver sperimentato quella sensazione di inadeguatezza, frustrazione che si articola sino alla rabbia nel conflitto con un suo simile? Eppure, analizzato nel suo significato profondo e slegato dall’indistinto che lo assimila ad altri concetti il conflitto riguarda la vita, ed è ossatura essa stessa dell’esistere, nel concreto agire come nel simbolico della creazione di cultura di riferimento e quindi di politica. Dovrebbe far riflettere il significato dell’adesione di molte donne alle ragioni dell’ultima sanguinosa guerra scatenata nei Balcani. Da come le donne riescono a riconoscere, a gestire e a trasformare il conflitto dipendono non solo la serenità individuale delle singole, ma anche la potenzialità di impatto simbolico per il proprio genere e quindi la capacità politica delle donne di modificare esistenza, scenario collettivo, alfabeti istituzionali e culturali.
|