Echi di guerra
Donne Kosovare nel Campo rifugiati di Comiso
di Laura Corradi

8 maggio

Oggi la gente del Kosovo sta arrivando dalla Macedonia e dall'Albania: verranno sistemati nella ex-base militare di Comiso, in Sicilia, 40 minuti di strada da casa mia. La base è stata luogo di grandi dimostrazioni del movimento contro la guerra. Nell'agosto 1993 ricordo di essere scesa dal Nord per passare lì l'estate, per poter partecipare al campo per la pace: fu quando quasi cento persone risultarono ferite; persino alcuni deputati che sostenevano la protesta vennero malmenati.

Sedici anni dopo, Comiso - più vicina all'Africa che a Palermo - dà il benvenuto a migliaia di rifugiati di guerra.

19 maggio, 7,30

Fa fresco, questa mattina. Sono le sette e trenta, c'é gente che fa la fila per la colazione - soprattutto donne e bambini. Le anziane con il caratteristico dimiq, la gonna-pantalone greco-ottomana e il fazzoletto bianco copricapo che nasconde i capelli. I capelli: bellezza cosi conturbante fra le donne mediterranee, da far recitare ai musulmani che la vista di "uno solo" di codesti capelli é come "una pugnalata nel cuore di Dio". Queste donne assomigliano alle donne Kashmiri: altere, dignitose anche nel dolore. Mi chiedo come mai le giovani, abbiano deciso di non indossare l'abito etnico, quali fattori abbiano influito affinché oggi debbano vestirsi con abiti spaiati - perché questo popolo, queste persone, non possano avere della tela, anche per ritessere i loro rapporti. Penso ad un laboratorio artigiano dove recuperare la memoria e la dignità culturale calpestate dalla guerra.

La distribuzione comincia: caffelatte, latte, the - soprattutto questo, ne usano in grandi quantità. Ne condivido una tazza ad un tavolo di donne: una madre e due figlie adulte; ma ci sono altri figli di cui l'anziana mi parla, una figlia che non é presente ed un figlio in Germania. Il ricongiungimento coi familiari è il problema più sentito - dopo quello del ritorno. Ma c'é una delusione in arrivo da Roma.

27 maggio

Il giornale "La Sicilia" dedica un pezzo alla base di Comiso: "Primi segni di insofferenza: quella voglia di libertà. I Kosovari chiedono di ricongiungersi con i parenti". Lo stesso giorno viene firmato il decreto sullo status delle profughe/i del campo di Comiso - che permetterà loro di uscire dai cancelli della base - ma di non poter andare molto più in là: con lo status "rifugiati per motivi umanitari", secondo l'articolo 20, non riceveranno una lira - e per peggiorare la situazione, non potranno nemmeno uscire dal territorio nazionale italiano, il che stride con Maastricht, con Shengen, con l'idea stessa di Europa. Quasi a voler negare l'evidenza, i profughi i nel campo di Comiso - in larga maggioranza donne, persone anziane e bambini, scampati alla pulizia etnica e Milosevic ed ai bombardamenti Nato - non sarebbero "rifugiati di guerra", ma "deportati". Così, con un comodo escamotage, il governo italiano oblitera la provenienza - e l'esperienza - di profughi/e di una guerra che dura da più di due mesi, una guerra che non ha risolto i problemi di coloro che si prometteva di aiutare, anzi li ha aggravati - una guerra che non possiamo più nemmeno chiamare guerra: un intero dizionario di ipocrisia è stato coniato dal fronte interventista, che oggi si rifiuta di dare dei diritti ai transfughi di questa guerra - forse destinati a divenire "lavoro profugo", self-service di braccia a basso costo per le potenze che vogliono abbassare i costi di produzione - come nota acutamente Ferruccio Gambino (il Manifesto 8 aprile,1999).

La condizione dei profughi di guerra è destinata a divenire paradigmatica nell'Europa del nuovo dis/ordine mondiale: tra le spinte competitive interne e le indiscutibili volontà Usa che mirano al triplice obiettivo di estendere il proprio controllo commerciale e militare verso i mercati dell'Est (garantendosi anche un corridoio sicuro per il petrolio del mar Caspio); di dare respiro alla potente industria delle armi e di indebolire l'Euro. Ma di questo si parla poco. La prima vittima di ogni guerra è la verità: ai bombardamenti di scuole, case, ponti e ospedali seguono i bombardamenti delle coscienze - la guerra delle bugie. A chi ritiene che questa guerra della Nato sotto l'egida statunitense sia una risposta valida alle strategie serbe di pulizia etnica, la realtà risponde che le condizioni del popolo Kosovaro sono peggiorate drammaticamente a seguito dei bombardamenti. A chi ritiene che questa guerra sia frutto di una decisione umanitaria a favore del Kosovo consigliamo la lettura di fonti statunitensi, Foreign Affairs (Affari Esteri, Martin Feldestein) un brano dal titolo "L'Euro e la guerra" dove nel 1997 si afferma a chiare lettere che "se l'Unione Monetaria Europea inizierà ad esistere - come sembra sempre più probabile - ciò cambierà il carattere politico dell'Europa in modi che potranno condurre a conflitti in Europa ed a scontri con gli Stati Uniti". Una guerra annunciata, quindi - non solo dagli arsenali pieni, e dal silenzio complice dei nostri governanti attorno ai traffici di armi. Un editoriale pre-guerra della rivista missionaria Nigrizia del marzo 1999 si rivolgeva a D'Alema, ricordando l'articolo 11 della Costituzione, (ove si afferma che l'Italia ripudia la guerra) con le seguenti parole: "Ci rivolgiamo al presidente del consiglio perché é lui a firmare la relazione al parlamento sulle esportazioni di armi, preparata dal comitato interministeriale per la politica economica e resa nota ogni anno in primavera. Non sarebbe male desse un'occhiata più attenta alla prossima relazione - quella relativa all'export 1998 - e dicesse al paese se quei dati sono in armonia con eventuali missioni di pace in Kosovo o nel Corno d'Africa (... ) Sarebbe sufficente che deputati e senatori fossero informati delle esportazioni non a posteriori, come avviene ora, ma prima che le operazioni siano effettuate."

Come non vedere la contraddizione tra uso delle armi ed erogazione degli aiuti? I profughi non possono essere visti come una conseguenza non voluta e non immaginata di questa guerra: essi corrispondono ad uno scopo, quello di liberare un'area e farne un protettorato esternalizzando i costi di questa operazione alle popolazioni limitrofe più ospitali e generose. Forse non é un caso che la scelta per l'Italia sia caduta sulla Sicilia - regione dal cuore d'oro. Le donne locali - non quelle che fanno politica, quelle che fanno i fatti - si sono precipitate a chiedere di che cosa ci fosse bisogno per i bambini, a incontrare le donne Kosovare, sbattendo il naso più volte contro le barriere linguistiche.

Torno in mensa a parlare con le profughe. Tranne le gallette alle mandorle, questi biscotti delle industrie italiane, sanno di vecchio. Il pane invece è buono, viene dai forni locali. E poi c'é il sorriso dei volontari della mensa, che si turnano al lavoro. Adesso un ex-cuoco kosovaro è stato accettato a lavorare nella mensa, primo passo si spera, verso l'autogestione della comunità: la forzata inattività in cui vengono mantenuti i profughi é forse l'elemento di impatto contingente più importante riguardo il maschio adulto. Le donne mi parano della difficoltà di adattarsi al cibo della mensa per coloro che sono abituati al cibo tradizionale, vorrebbero dei fornelli, e degli utensili per farsi da mangiare. Il consumo di piatti, posate e bicchieri di plastica è impressionante.

Guardo il tramonto: chissà cosa pensa, in cima alla collina adiacente alla base, il monaco buddista Moroshito: nato il giorno della bomba di Hiroshima, decise di dedicare la sua vita alla pace. Quando lo conobbi, nell'estate 1983 girava per Comiso dicendo solo una parola: "Pace!" e suonava il gong dall'alba al crepuscolo. Se ne sono andati tutti, dalla base, prima i dimostranti pacifisti, poi i militari - ed e' rimasto solo lui. Ora, sotto il tempio che ha edificato in questi anni, la ex-base Nato si sta trasformando in una palestra di ospitalità, di democrazia e di tolleranza, in un laboratorio di mediazione culturale e di incontro tra la gente: per tener viva la voglia di costruire tra i profughi, per accettare questa sfida del multiculturalismo. E per cogliere una grande occasione: il rilancio intelligente della Sicilia sud-orientale, della sua bellezza seducente e selvaggia, delle sue risorse naturali ed umane. Valorizzare le radici locali protendendo i rami verso il mondo. Quando i kosovari torneranno alla loro terra, ci ha detto Rugova, saranno i nostri migliori amici.

3 giugno

Molti progetti stanno iniziando nella "Kosovo peacetown" : laboratori di teatro e di cucito, gruppi di giovani e di donne, musica, sport ed altre attività ricreative, persino una radio in albanese e classi di italiano.

Il problema maggiore per tutte/i é il trauma da guerra. Sto cercando di porre il problema con la direzione del campo, con i volontari, con le agenzie presenti - e di mettere insieme un gruppo di psicologhe, antropologhe, sociologhe e mediatrici culturali selezionate. Servono delle linee guida: qui la direzione e la maggior parte dei volontari non ha la più pallida idea di cosa significhi diversità etnica - per non parlare delle questioni di genere. E i problemi stanno iniziando. Spero di avere un po' di tempo per parlare con Laura Balbo, prima che incontri la direzione del campo.

14 luglio

La peacetown sembra vuota. Repentinamente, in cinque giorni, tra il 6 e il 12, quasi 4,000 Kosovari sono stati riportati a casa. Molti avevano deciso di restare: circa 1800 hanno lasciato il campo, prima che la veloce operazione di ritorno iniziasse.

Mi chiedo perché Gelvete Kowmaci sia tornata in Kosova con la sua famiglia. Cinque bambini, e una sicurezza: sarebbe restata nel nostro paese, almeno fino alli fine di Dicembre - come era stato consentito dal loro status. Stavo raccogliendo storie di vita delle donne Kosovare e, durante l'intervista, la traduttrice - una valida mediatrice culturale - quasi collassò. Decidemmo di interrompere l'intervista per riprenderla qualche giorno dopo. Mi accertai della sua disponibilità - e mi ripeté che no, non sarebbero partiti. Mi chiedo perché Gelvete Kozmaci ha cambiato idea.