CivitasMed
Mostra-Convegno
della solidarietà e dell'economia civile
16-19 novembre 2006
Workshop: La guerra dentro
Laboratorio di teorie e pratiche politiche di mediazione
dei conflitti
venerdì 17 novembre 2006 ore 16,00
Cosenza - Cupole geodetiche
Sala convegni
DONNE DI PACE ARABE ED EBREE NEL CONFLITTO
ISRAELO-PALESTINESE
di Ada Donno
Donne di pace che hanno scelto
il pericolo
Mi hanno costretta a scegliere tra la morte
e il varco
ma io ho scelto il pericolo
mi sposto passo dopo passo
senza curarmi delle fosse
che ostacolano il mio cammino
Sono versi di Hanan Awwad, poeta, saggista, scrittrice palestinese.
Lei stessa ce li recitò una sera d'estate di due anni fa a Serrano
di Lecce, dove una giuria intelligente assegnò a lei e ad un suo
collega e amico poeta israeliano un prezioso simbolico premio detto "Olio
della poesia". Hanan è di Gerusalemme, nata da una famiglia
di intellettuali da cui ha ricevuto un lascito inestinguibile: un viscerale
attaccamento alla patria palestinese, una profonda conoscenza della straziata
storia del suo popolo e, insieme, una volontà appassionata di difendere
le libertà e i diritti umani universali.
Come poeta, ha scritto "con il sangue" il senso di perdita e
la pena del suo popolo defraudato della terra, l'amore e lo struggimento
per la patria incatenata, lo sconforto e la speranza irreprimibile.
Come attivista, Hanan ha dedicato gli anni migliori della sua vita all'impegno
per una giusta soluzione del conflitto Israelo-Palestinese, sempre ispirato
alla consapevolezza che la pace per i palestinesi è fondamentale
non solo per la qualità delle loro vite, ma per la loro stessa
sopravvivenza.
Dal 1988 Hanan è presidente della sezione palestinese della Women's
International League for Peace and Freedom. Nel 1990 fu tra i coordinatori
di una memorabile Marcia per la pace con "catena umana" attorno
a Gerusalemme, nel 1991 contribuì per la parte palestinese a preparare
la conferenza sul Medio Oriente di Madrid. Hanan osserva i suoi fratelli
e sorelle palestinesi trasformati in rifugiati sulla loro stessa terra
e si prodiga in una inesausta attività di movimento, di studio
e di scrittura perché essi non siano spinti nell'assenza e perché
la realtà palestinese non sia rimossa dalla coscienza del mondo.
Alyiah Strauss è israeliana: arguta,
lo sguardo diretto e franco, indulgente e forte. Arrivò in Israele
dall'Europa dell'est inseguendo come tanti altri ebrei il sogno di una
terra promessa. Ma non voleva realizzarlo al prezzo della distruzione
di un sogno altrui. Né intendeva coprirsi di quella sorta di immunità
morale che dà alle vittime di ieri il diritto di produrre altre
vittime oggi.
Alyiah è una donna di pace, sa che non può esserci pace
là dove c'è occupazione militare, arbitrio, oppressione.
E' insegnante di liceo a Tel Aviv ed è presidente della sezione
israeliana della Women's International League for Peace and Freedom, che
è composta di donne arabe ed ebree insieme. Vede con apprensione
la società israeliana diventare ogni giorno più reazionaria,
bellicosa e chiusa in se stessa, vede le disuguaglianze e le violazioni
dei diritti umani, il razzismo e l'ingiustizia acquistare nuove forme
e significati che vengono accettati e giustificati da una larga parte
della popolazione israeliana. Osserva la situazione sociale ed economica
del suo paese e il sistema dell'istruzione in cui lavora e pensa che non
possano non essere condizionati dal fatto che l'apparato militare e gli
ininterrotti insediamenti abusivi di coloni nei territori occupati palestinesi
inghiottono una enorme quota del bilancio nazionale a scapito di tutto
il resto.
Un anno fa Alyiah venne all'Università di Lecce, invitata ad un
convegno su "La Nuova Triade Mediterranea: l'Acqua l'Olio e il Vino",
e coraggiosamente e impietosamente ci raccontò come Israele nel
1967 si è appropriato, insieme alle terre dei palestinesi, anche
dell'altro elemento vitale: l'acqua. Aggiornò a nostro beneficio
il bollettino doloroso delle attività quotidiane di sradicamento
di alberi, demolizione di case e confisca di terreni, delle angherie e
prepotenze dei coloni israeliani e della resistenza dei contadini palestinesi
che difendono il loro diritto a coltivare la propria terra palmo a palmo,
contro i bulldozer dell'esercito. Ci spiegò che la costruzione
del famigerato Muro di Separazione voluto dal governo Sharon significava
privare i contadini di pozzi d'acqua ed ulivi da cui traggono alimento
e vita. Sentendola parlare, alcuni tra il pubblico si domandavano se non
avessero capito male, se non fosse lei stessa palestinese.
L'impegno della Wilpf in Palestina
Mi vengono alla mente queste due figure
di donne, così ammirevoli e vere, mentre cerco un modo non banale
di raccontare il lunghissimo impegno della Wilpf per la pace in Palestina.
E penso che forse è questo il modo migliore. Per due ragioni fondamentali.
La prima è che non basterebbero le pagine assegnatemi per contenere
l'intera geografia e la storia dell'impegno della Wilpf per la Palestina
e, più in generale, per il Medio Oriente. Neppure se, potendolo
fare, mi mettessi a ripercorrere la grande produzione di materiali scritti
che documentano la lunga fatica di interlocuzione con le istituzioni internazionali,
particolarmente con il sistema delle Nazioni Unite.
La Wilpf ha da poco compiuto novant'anni, il conflitto fra Israele e Palestina
l'ha visto accendersi e divampare, ha assistito al succedersi delle drammatiche
alterne vicende, è stata sollecitata a dire e ad agire, nei limiti
ristretti delle possibilità date, per contribuire a che le due
parti e la comunità internazionale trovassero una via d'uscita
negoziata e giusta. Se non altro per il prestigio che le deriva dall'età
(ma certo non solo per quello) è tuttora, fra le organizzazioni
non governative, una voce ascoltata grazie agli "statuti consultivi"
e alle "relazioni speciali"di cui gode con il Consiglio economico
sociale e con le agenzie delle Nazioni Unite.
Ma temo che, limitandomi all'esame dei documenti, non renderei il senso
di un lavoro creativo, appassionato e sapiente svolto negli anni dalle
donne che hanno fondato la tradizione politica della Wilpf e dato a noi,
generazioni venute dopo, la possibilità di continuarla, riprodurla
o trasformarla in cinque continenti.
Né renderei giustizia (e questa è anche la seconda delle
ragioni di cui dicevo) a tutte le donne che hanno contribuito - e contribuiscono
- a creare quel complesso spessore di rapporti, atti, giudizi politici
che non possono non aver generato conseguenze, pur nella scarsa visibilità
che il più delle volte avvolge il quotidiano caparbio agire delle
donne (ma non è una qualità delle donne spostare le montagne
senza farsene accorgere?) a tutte le latitudini e longitudini: da quelle
che esponendosi prendono parola e si assumono la responsabilità
della rappresentanza, a quelle che "scelgono il pericolo" e
vanno sul campo, a quelle che si muovono nel prezioso anonimato della
ricerca di fondi o della raccolta di firme in calce ad un appello, fino
alle tante e tante altre di cui non so, ma la cui stessa attività
"invisibile" assicura la continuità dell'esperienza della
Wilpf nel tempo e nello spazio.
Partire dalle persone nei cui corpi, biografie
e vite quotidiane è iscritto un conflitto devastante come quello
palestinese-israeliano, insomma, aiuta a salvaguardare la complessità
di un'azione politica che si configura come un difficile lavoro di mosaico,
in un contesto così complicato che tante volte fa sentire piccole
e irrilevanti le nostre azioni e inefficaci rispetto al mondo.
La Wilpf questo lavoro lo svolge movendosi su un duplice asse. Quello
(cui ho accennato) della interlocuzione con le istituzioni alle quali
la comunità internazionale affida - o dovrebbe affidare, ma questo
accade sempre meno in tempi come questi in cui conta soltanto la volontà
di un paese strapotente - la ricerca di soluzioni negoziate dei conflitti.
E quello dell'attività "grassroots", di base, che costituisce
la nervatura vivente dell'organizzazione, quella che produce saperi e
proposte, gesti e relazioni significative.
Un lavoro che non è in sé concluso, ma sempre alla ricerca
della sintonia, o anche solo della occasionale alleanza, con altre donne
- e altri uomini - che nel mondo hanno altre storie, altre tradizioni
politiche. E al contempo è un lavoro che, senza ignorare le concause
lontane e profonde del conflitto, si orienta all'individuazione dei nodi
storico-politici che hanno complicato la "questione palestinese",
per posizionarsi con puntualità rispetto ad essi e vagliarne senza
ambiguità le possibili uscite. Partendo dalla guerra del 1967 per
giungere, attraverso gli accordi di Oslo e la contrastata esistenza dell'Autorità
Palestinese, fino ai nuovi inquietanti scenari aperti dalla recente vittoria
elettorale di Hamas che (a seconda di come Israele e la comunità
internazionale si rapporteranno ad essa) può significare una nuova
drammatica complicanza oppure l'inizio di un imprevisto percorso di uscita.
Punto fermo della Wilpf è stato nel tempo il richiamo alla legge
internazionale e alle numerose ( e mai applicate da Israele) risoluzioni
adottate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che affermano
il diritto d'Israele ad esistere e il diritto dei palestinesi ad auto-determinarsi
costituendosi come stato indipendente e sovrano entro i confini segnati
da quella "linea verde" violata 39 anni fa.
La Palestina nel corso degli ultimi decenni è stata immancabilmente
iscritta in agenda nelle sessioni annuali della Commissione per i Diritti
Umani a Ginevra e la Wilpf, presente nel Gruppo di lavoro delle organizzazioni
non governative sul Medio Oriente, ha denunciato ad essa con tenacia la
politica repressiva che ha stretto in una morsa le vite dei palestinesi
e ha reso i territori occupati - come ha riconosciuto onestamente l'attivista
israeliano Uri Avnery - "una serra in cui fioriscono gli attentatori
kamikaze".
C'è da chiedersi se i coprifuoco, i checkpoint, il muro di separazione,
le demolizioni e le confische, che privano la popolazione palestinese
dei residui di libertà e di vita, si giustifichino con il bisogno
di sicurezza contro il terrorismo - dice una dichiarazione della Wilpf
del 2005 - o non piuttosto con il tentativo tutto politico di forzare
le condizioni ultime di un accordo territoriale con i palestinesi annettendosi
quante più terre. Lo stesso ritiro unilaterale dalla Striscia di
Gaza ordinato da Sharon è stato accolto dalla Wilpf con prudenza,
mettendo in guardia contro la possibilità che si trattasse di "un
disonesto tentativo di sottrarsi alla necessità di urgenti e autentici
negoziati di pace con l'Autorità Nazionale Palestinese".
Altrettanto dura è stata la critica rivolta all'inerzia delle istituzioni
internazionali di fronte alla ri-occupazione brutale delle zone sotto
il controllo dell'Autorità Palestinese ( "Come definire queste
azioni di Israele, se non terrorismo di stato e crimine contro l'umanità,
così come sono formulati dalla Convenzione dell'Aja del 1907, dalle
Convenzioni di Ginevra, dal diritto internazionale e dall'Articolo 7 dello
Statuto del Tribunale Penale Internazionale?") e di fronte all'implacabile
procedere del muro, delle demolizioni e degli insediamenti illegali.
"A stare in Palestina - ha scritto di ritorno a Ginevra da una missione
Edith Ballantyne, special advisor della Wilpf per il Medio Oriente, insignita
dall'Onu del titolo simbolico di "donna del disarmo" - si prova
fisicamente ed emotivamente euforia e fatica allo stesso tempo. E' una
terra bellissima, le valli verdi e le brulle colline scure ondulate proiettano
un sorprendente mix di giovinezza e vecchiaia, di attività e riposo,
di innocenza e sapienza. La terra invoca pace ma non c'è pace.
Mentre ciascuno vorrebbe vivere in pace, c'è tensione, conflitto
e guerra. E questo è vero allo stesso modo per palestinesi ed israeliani".
Non lasciate che il ramo d'ulivo cada dalla
mia mano
Il 13 novembre del '74 Yasser Arafat, allora
presidente dell'Olp, si presentò ad una memorabile Assemblea generale
delle Nazioni Unite tenendo in una mano il fucile e nell'altra un ramoscello
d'ulivo, e pronunciò una frase rimasta negli annali: "Non
lasciate che il ramo d'ulivo cada dalla mia mano". Erano trascorsi
appena quattro anni dal terribile Settembre Nero libanese e due dall'orrenda
strage di Monaco. Alcuni vollero prendere quella preghiera per una minaccia,
ma era in realtà il primo coraggioso passo verso l'accettazione
della formula "due Stati per due popoli" proposta dalle Nazioni
Unite.
Trent'anni dopo, il giornale democratico israeliano Yediot Ahanorot, commentando
gli effetti della costruzione del Muro della vergogna, che stava trasformando
l'ulivo da simbolo di pace in uno di furto ed estorsione, scriveva: "Un
albero d'ulivo è una meraviglia della natura. Non a caso è
divenuto un simbolo. Sia per gli israeliani che per i palestinesi. Essi
traggono da lì la loro vita, e noi scriviamo canzoni di pace sulla
proverbiale colomba e il ramo d'ulivo. Ma se questo è ciò
che accade agli ulivi in nostro nome, Dio abbia pietà della colomba...."
Impedire che il ramo di ulivo secchi del tutto è ancora un obiettivo
primario per le donne palestinesi ed israeliane della Wilpf, che sostengono
attivamente strategie non violente di resistenza come la Olive Tree Campaign,
progetto di piantumazione di nuovi ulivi là dove vengono sradicati;
curano visite guidate nei Territori occupati finalizzate a "vedere
con i propri occhi per testimoniare al mondo"; promuovono giri di
incontri con le comunità ebraiche degli Stati Uniti e di altri
paesi; mettono in moto la diplomazia delle donne cercando il contatto
con autorità di governo arabe alle quali chiedono maggiore responsabilità;
tessono reti di relazioni con le altre donne del Medio Oriente; collaborano
con le coraggiose donne di Machsom Watch, il gruppo che in Israele si
occupa di documentare e testimoniare la brutale realtà dei posti
di blocco, dei checkpoints e delle ruspe che spianano le case palestinesi,
affinché anche gli israeliani ignari si rendano conto e nessuno
possa dire: "Non sapevo"; prendono parte nel centro di Tel Aviv
alla muta e severa protesta delle Donne in nero; collaborano alla Coalition
of Women for Peace e sostengono le attività di Bat Shalom a difesa
dei refusenik, i giovani obiettori di coscienza israeliani che finiscono
sotto processo e in prigione.
A volte bastano piccoli gesti pieni di senso
per misurarsi con quella sfida grande che è andare alla ricerca
di una possibilità diversa di affrontare il conflitto e di trovare
una soluzione che non sia distruttiva di corpi, culture e risorse ma si
traduca anzi in forza rigeneratrice.
Noi sappiamo che "con la Palestina nel cuore" è cresciuta
qui in Italia, come in molti paesi europei, una generazione del movimento
delle donne che ha cercato di superare i limiti del pacifismo testimoniale
per misurarsi con ciò che "le donne con le donne possono fare",
andando sui luoghi dei conflitti per rendersi conto di persona, stabilendo
il contatto fisico con i corpi colpiti e martoriati, superando le farragini
delle diplomazie istituzionali per far crescere parole di donna in merito
a pace e guerra.
Il 31 ottobre 2001 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato
la risoluzione 1325 che raccomanda ai governi di riservare alle donne
una quota negli organismi deputati alla prevenzione e gestione dei conflitti
a tutti i livelli decisionali.
La Wilpf ne ha fatto una sua bandiera, perché lo considera un riconoscimento
senza precedenti alle capacità potenziali delle donne di negoziare
e al ruolo determinante che esse possono avere nello sviluppo di un modello
alternativo di mediazione e dialogo politico internazionale.
Nello stesso tempo ha lanciato e va sostenendo la proposta di un Consiglio
di Sicurezza Mondiale delle Donne, una sorta di osservatorio internazionale
sull'operato del Consiglio di Sicurezza ufficiale (definito "un conclave
senza potere del cui operato dubitiamo perché produce più
che altro insicurezze") e delle strutture dell'Onu.
Naturalmente nessuno può assicurare in anticipo che un conflitto
verrà risolto positivamente e pacificamente se le delegazioni che
negoziano saranno composte per metà da donne. Ma assegnare alle
donne la giusta metà dei posti attorno ai tavoli negoziali, dove
si decide il futuro, può essere l'inizio di un'altra storia.
Il testo sta in: Per una libera aggiunta
in più. Pratiche di donne tra femminismo e non violenza, a cura
di Giovanna Providenti, Roma 2006
|
|
|