AMORE E RICONOSCIMENTO:
LA VIOLENZA MASCHILE
E IL SENSO DELLE NOSTRE RELAZIONI
maggio-giugno 2006
Marco Deriu
Sempre più spesso, guardando la televisione e
leggendo il giornale, riceviamo notizie di violenze terribili sulle donne
che ci turbano e ci sconvolgono, ma ai quali non riusciamo ad attribuire
un reale significato e che generano dunque reazioni e commenti inadeguati.
Occorre sottrarre questi eventi - che entrano spesso nel mondo della comunicazione
mass-mediatica con un misto di voyerismo, morbosità e volgarità
- alla dimensione della cronaca nera e dell'informazione spettacolo per
trovare le risorse sociali e culturali per rielaborare il dolore e per
trarne qualche insegnamento per tutta la collettività.
Questi ultimi mesi sono stati davvero impressionanti. Mi riferisco in
primo luogo alla tristissima vicenda di Jennifer, la ragazza ventenne
di Olmo di Martellago picchiata e uccisa incinta dall'ex amante trentaquattrenne
Lucio Niero. Ma ricordo anche altre vicende recenti. Sempre in maggio
abbiamo saputo prima dell'uccisione a Les Crosets dell'ex campionessa
di sci Corinne Rey-Bellet (insieme al fratello e al ferimento della madre),
anche lei incinta di tre mesi, da parte dell'ex marito banchiere Gerold
Stadler da cui si era separata da una decina di giorni (e che si è
poi ucciso a sua volta). Poi c'è stato il caso di Genova dove sempre
agli inizi di maggio una donna di 36 anni, Luciana Biggi, è stata
assassinata nei vicoli del centro storico di Genova, forse dall'ex fidanzato
di 30 anni. Sempre nei primi giorni di maggio era stata ritrovato, vicino
ad un distributore di benzina a sud di Roma, il cadavere decapitato di
Patrizia Silvestri di 49 anni. Anche in questo caso l'assassino sembra
essere l'ex compagno, un camionista di 30 anni che aveva lasciato due
mesi prima.
Negli ultimi anni si è registrata una catena di omicidi riguardanti
donne. In alcuni casi sono semplicemente mariti che uccidono mogli e compagne
per liti di qualsiasi genere. Ad Ancona nell'aprile 2006 un poliziotto
di 44 anni uccide con una pistola la moglie di 39; a Santi Cosma e Damiano
(Latina) nel febbraio 2006 un uomo di 54 anni uccide la moglie e il figlio
con un fucile dopo una lite; a Roma nel dicembre 2005 un uomo di 67 anni
uccide (decapita) la moglie di 50 anni ed il figlio disabile; a Settimo
Torinese nel dicembre 2005 un uomo di 39 anni uccide la moglie di 34 a
martellate mentre dormiva; a Spregiano (Treviso) in dicembre 2005 un uomo
di 65 anni ha ucciso la moglie di 62 a colpi di bottiglia; a Mestre nel
novembre 2005 un carabiniere uccide con due colpi alla testa la moglie
di 34 anni; a Milano nel luglio 2005 (un uomo di 54 anni uccide a colpi
di martello la moglie di 45.
Al di là della cronaca: una nuova questione
maschile
Al di là della cronaca ci sono due dati che val
la pena ricordare. Innanzitutto c'è l'indagine del Consiglio d'Europa
resa pubblica nell'ottobre 2005 che ha rivelato che la violenza subita
da partner, marito, fidanzato o padre è la prima causa di morte
e invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni (prima
di tumori o di guerra) non solo nel mondo ma anche in Europa.
In secondo luogo si può sottolineare che secondo quanto emerge
nel rapporto "Lo Stato della Sicurezza in Italia" del 2005,
mentre i dati relativi agli omicidi in Italia tra il luglio 2001 e il
giugno 2005 registrano in termini generali una diminuzione rispetto al
quadriennio precedente, al contrario gli omicidi commessi nell'ambito
famigliare - pari a circa il 32% dei delitti dell'ultimo quadriennio -
sono letteralmente raddoppiati (nel 2004 tuttavia c'è stata una
leggera flessione rispetto al 2003). Stiamo parlando dunque di un fenomeno
attuale e non di un semplice residuo del passato.
A questo fatto si può aggiungere una specifica ulteriore che mette
in luce un aspetto di chiara novità. In molti casi dietro questi
omicidi contro donne c'è di mezzo anche l'esperienza della separazione,
del rifiuto, della scelta della ex compagna di costruirsi un'altra vita.
Oltre ai casi degli ultimi mesi che abbiamo già citato si possono
ricordare ancora alcuni episodi: a Modena nel dicembre 2005 una ragazza
di 19 anni viene uccisa a coltellate dal fidanzato con il quale aveva
deciso di troncare il rapporto; a Chiasso (Torino) sempre nel novembre
2005 un uomo di 39 anni uccide l'ex moglie di 38 anni con una pistola
davanti alla figlioletta; a Caiò di Cancello (Verona) un uomo di
34 uccide strangola l'ex convivente di 32 anni e le dà fuoco nella
macchina; a Valeggio sul Mincio nell'ottobre 2005 un uomo di 37 anni uccide
di botte una donna di 25 anni sua ex convivente; a Torino un uomo di 31
uccide a coltellate la sua ex fidanzata di 20 anni, entrambi marocchini;
in settembre una donna ecuadoriana di 33 anni a Cinisello Balsamo e una
di 40 anni a Treviso vengono uccise dei loro compagni. In entrambi i casi
le donne erano sul punto di porre termine alla relazione. E l'elenco potrebbe
continuare. Si tratta di alcuni casi fra quelli riportati nei quotidiani.
Ma possiamo anche prendere in considerazione le poche indagini sistematiche
compiute a questo riguardo per avere qualche elemento in più.
Nella ricerca svolta qualche anno fa dal Centro documentazione dell'Eurispes
in collaborazione con l'Associazione Ex sono stati proposti una seri di
dati relativi ad omicidi familiari/parentali e "di coppia" (compagni
o ex compagni), accaduti tra gennaio e dicembre 2003. I dati del 2003
registrano 157 omicidi di cui 101 omicidi di coppia (111 secondo i dati
EURES). Fra questi ultimi gli autori erano in 87 casi uomini e in 14 casi
donne. Un particolare che si può cogliere è che mentre gli
omicidi da parte di donne riguardavano solo relazioni in corso (7 tra
coniugi, 4 tra conviventi, 3 tra amanti o fidanzati) e nessun ex compagno
o rivale, viceversa gli omicidi da parte di uomini oltre a relazioni in
corso (59 casi) riguardavano in ben 24 casi ex compagne (mogli, conviventi
o amanti) e in 4 casi rivali. In 37 episodi si tratta di situazioni in
cui gli uomini non accettano la separazione attuata o imminente.
Nella ricerca "L'omicidio volontario in Italia. Rapporto 2005"
curata dall'EURES in collaborazione con l'ANSA i dati diversamente aggregati
(dunque non completamente paragonabili) registravano nel 2004 187 delitti
maturati in "ambito domestico" ovvero di coppia o tra familiari.
In sostanza in Italia c'è un omicidio "in famiglia" ogni
due giorni. Gli omicidi "di coppia" sono invece 100. Fra questi
gli uomini sono in 85 casi autori e in 17 casi vittime mentre le donne
sono in 15 casi autrici e in 83 casi vittime. Si può notare inoltre
che gli uomini hanno ucciso 17 ex partner (contro i 3 casi di donne) e
in 1 caso la donna desiderata. Uomini sono anche gli autori dei 12 episodi
(in questa ricerca sono conteggiati fuori dai 100 omicidi di coppia) in
cui le vittime sono stati i rivali (maschi). Secondo questa ricerca gli
episodi in cui il partner uccide chi lo sta abbandonando sono addirittura
59 (il dato è aggregato e non distingue tra uomini e donne).
Soltanto qualche mese fa il quotidiano Liberazione aveva aperto un importante
dibattito sulla violenza maschile contro le donne. La discussione su Liberazione,
nella quale sono intervenuti per la prima volta anche molti uomini, ha
avuto un grande merito, quello di spostare il fuoco dell'attenzione dalle
vittime agli aggressori, nella stragrande maggioranza dei casi uomini.
In effetti nelle cronache quotidiane curiosamente non si approfondisce
mai cosa questi casi ci dicono dello stato delle relazioni tra uomini
e donne, si preferisce parlare di queste vicende come se si trattasse
ogni volta di casi isolati dovuti al comportamento di individui malati
o alterati. Finché si può proiettare il male su qualcun
altro evitiamo di interrogare anche noi stessi e le nostre relazioni.
Nelle cronache quotidiane infatti nessuno si è azzardato finora
a sottolineare che siamo di fronte ad una nuova e irrimandabile "questione
maschile" che rimane in verità ancora da comprendere. Una
questione che non può essere affidata semplicemente ad aule giudiziarie
o a divisioni psichiatriche, ma che interroga la società nel suo
complesso e gli uomini in particolare. Dunque si può avanzare qualche
ipotesi in proposito.
Violenze post-patriarcali?
Nell'analisi di questa violenza dobbiamo anche evitare
di rifugiarci in semplificazioni automatiche, come se si trattasse di
forme già conosciute, di residui di mentalità passate, di
antichi retaggi. È vero che nella cultura patriarcale le violenze
verso le donne ci sono sempre state. Ma questa violenza non sembra essere
il risultato di uomini che ritengono le donne inferiori, qualcosa da sottomettere,
come poteva essere in passato. Stiamo parlando di violenze commesse da
persone di ogni strato sociale, acculturate e con titoli di studio. Del
resto altrimenti non si capirebbe perché questo problema riguarda
molti paesi europei dalla Spagna all'Italia, dalla Svizzera alla Svezia
e non solo paesi poveri o periferie degradate delle nostre metropoli.
Né d'altra parte si capirebbe perché la maggior parte degli
omicidi domestici avviene nel Nord Italia e in particolare in Lombardia,
ovvero in regioni ricche e avanzate. Dunque non è una violenza
dovuta all'emarginazione o all'ignoranza di esseri diversi ed alieni che
ancora nel XXI secolo a Milano, a Roma, a Torino, come a Madrid, Barcellona,
Helsinki e a Stoccolma, guardano alla donna come essere inferiore.
Io credo invece che stiamo assistendo ad una trasformazione delle forme
e dei significati di questa violenza che ci parla anche del cambiamento
nella vita delle donne, degli uomini e delle relazioni tra uomini e donne.
Oggi siamo in una situazione caratterizzata da quelle che il sociologo
inglese Anthony Giddens chiama "relazioni pure". Per relazioni
pure si intendono relazioni non dettate da obblighi sociali o economici
(o almeno non come in passato). Grazie ai cambiamenti culturali e ad una
maggiore autonomia economica e sociale, le relazioni oggi si fondano sempre
più sulla comunicazione e sull'intesa emozionale. Tale intesa in
passato non era la base su cui si sostanziavano i legami di coppia o familiari
che rispondevano invece ad altre priorità, oggi al contrario ne
è pressoché l'unico presupposto e fondamento. Questo spiega
almeno in parte la trasformazione, l'incertezza e la volubilità
delle relazioni tra uomini e donne, nonché la pluralità
delle forme di legame affettivo e famigliare.
In passato le relazioni tra uomini e donne erano costruite su ruoli, obblighi
sociali, progetti famigliari, calcoli economici, relazioni di potere e
talvolta di coercizione. Non che tutto questo si possa dire completamente
scomparso, ma certamente oggi i legami tra donne e uomini, compresi quelli
famigliari, si fondano in misura molto più rilevante su dimensioni
emotive, sulla capacità di comunicazione e comprensione reciproca,
su rapporti di intimità, sulla fiducia e sul rispetto, sulla disponibilità
al dialogo e sull'adattamento reciproco. In altre parole il rapporto di
coppia non è dato una volta per tutte ma è frutto di un
dialogo, di una contrattazione, di un'intesa e di una fiducia che va costantemente
riaffermata. Alla costruzione di questa condizione ha dato un contributo
fondamentale il movimento delle donne e l'avvento del senso di libertà,
di autonomia e di differenza che le donne hanno saputo imporre a tutta
la società.
La novità che abbiamo di fronte agli occhi e che dobbiamo riconoscere
è che, a fianco della violenza che colpisce donne in situazione
di marginalità sociale, oggi registriamo una violenza che sembra
nascere dall'incapacità soprattutto da parte degli uomini di accettare
e accogliere un'autonomia e una libertà già entrate nella
vita di molte donne. La violenza oggi comincia a colpire la donna che
non accetta più di costituire il supporto permanente dei bisogni
dell'uomo dentro e fuori la coppia. La violenza maschile si riversa sulla
donna che - a torto o a ragione - apre conflitti e pone in questione l'uomo,
la donna che decide di lasciare il proprio compagno, la donna che cerca
di rifarsi una vita da sola o con qualcun altro, la donna che decide di
portare avanti autonomamente la sua gravidanza. In qualche caso - ma su
questo bisognerebbe aprire un ragionamento a parte perché la questione
è più complessa e contraddittoria - anche l'affidamento
e la relazione coi figli diventano un ulteriore elemento di conflitto
e di risentimento (i dati registrano 4 situazioni di questo genere nel
2004 e 5 nel 2003). Stando al rapporto dell'EURES i casi in cui il fattore
scatenante sarebbe dovuto alla decisione di separazione da parte della
vittima coprirebbero nel 2004 circa il 31,6% degli episodi di omicidi
in ambiente domestico. Questo problema riguarda soprattutto gli uomini
e suggerisce così abbastanza chiaramente la realtà di una
maggiore dipendenza psicologica e una minore autonomia da parte maschile.
Dunque credo che il tipo di violenza che abbiamo di fronte agli occhi
non sia una semplice riproposizione della cultura e del potere patriarcali.
Questa violenza non implica alcun rifiuto dell'uguaglianza tra i sessi
e tanto meno un pregiudizio di inferiorità verso la donna. Al contrario,
si potrebbe dire, rileva un riconoscimento della compiuta autonomia femminile,
e semmai un senso di inadeguatezza e una certa difficoltà degli
uomini ad accettare nel proprio quotidiano la differenza e la libertà
nei rapporti con le donne. Non sto parlando di differenze stereotipate,
di "ruoli sessuali" ma della libertà della donna di essere
se stessa, di pensare con la propria testa, di avere i propri sentimenti
e desideri, e anche di differire dai modelli maschili, dai valori della
società degli uomini e anche dall'immagine di sé che l'uomo
vorrebbe affibbiarle.
È facile naturalmente riconoscere una certa continuità di
questa violenza con la violenza tradizionale maschile di tipo patriarcale,
ma quello che voglio sottolineare è che al contempo si sta manifestando
una discontinuità importante: questa violenza parla sempre più
di una mancata rielaborazione e di un affanno maschile di fronte ad una
libertà femminile piuttosto che non di un potere maschile e di
una sottomissione femminile. I termini di questa violenza sono cambiati.
E forse proprio per questo assume forme sempre più efferate e incontrollate.
Cancellare l'alterità piuttosto che riconoscerla
Riportando questo ragionamento alla sfera delle relazioni
credo che oggi come oggi gli uomini commettano violenza soprattutto perché
non accettano la differenza, ovvero non accettano l'alterità della
propria compagna. Non accettano che la donna che hanno di fronte non sia
semplicemente una continuazione, un riflesso del proprio desiderio o dei
propri bisogni. Non accettano che essa possa scegliere in base al suo
desiderio e che questo desiderio non coincida con il proprio. In questo
scacco - e nel conseguente senso di "impotenza" verso l'autonomia
e la libertà femminile - emerge tutta la dipendenza, la fragilità
e l'insicurezza rimossa degli uomini. Poiché tutti questi aspetti
sono ancora intollerabili per molti uomini, li si nega ancora una volta
tramite la violenza. Si potrebbe dire che molti uomini preferiscono cancellare
l'alterità piuttosto che riconoscerla e accettare così la
propria parzialità, la propria vulnerabilità, la propria
impotenza. In questo senso la violenza maschile sulle donne è un
tentativo di cancellare la differenza e non l'uguaglianza.
Ciò che è difficile per gli uomini oggi non è riconoscere
che le donne hanno pari dignità o valore degli uomini. Ciò
che è difficile è stare di fronte ad una donna ed accettare
che essa è altro da noi. Ebbene io credo che la relazione vera
e propria può nascere solo nel momento in cui ogni uomo riconosce
che la donna che ha di fronte non è una sua proiezione o un suo
oggetto e che essa può differire da lui in tante cose. Solo a quel
punto può cominciare una relazione ed uno scambio reale e nonviolento.
Dunque accettare la libertà di differire della donna, accettare
la propria parzialità e limitatezza e accettare una relazione reale
sono tre aspetti intimamente connessi. Da questo punto di vista, questa
violenza, in un modo o nell'altro, ci interroga tutti. Non si tratta quindi
di prendere le distanze da una violenza che sta fuori di noi, che appartiene
"agli altri", agli "uomini violenti", ma piuttosto
di fare realmente i conti con una possibilità che è inscritta
nella cultura comune. L'episodio di violenza da questo punto di vista
è soltanto una delle possibili conclusioni. Il dato comune a tutti,
non è l'episodio conclusivo della violenza, ma ciò che la
precede: la concezione della coppia, dell'amore, della relazione. Ciò
che ci sembra normale perché non si manifesta nella forma della
violenza esplicita e del crimine, ma che probabilmente è invece
all'origine del problema.
Quello che noi uomini possiamo fare dunque è cominciare a parlare
delle nostre modalità relazionali, di come siamo nelle relazioni,
di come costruiamo le relazioni, di come le neghiamo, di come ne fuggiamo.
Dobbiamo chiederci in che misura siamo riusciti ad accogliere la libertà
e il libero desiderio delle donne nelle nostre relazioni e nel nostro
modo di amare.
Relazioni affettive: dalla simbiosi al valore del
negativo
Noi uomini dobbiamo dunque divenire più maturi
nell'interrogare le nostre relazioni affettive. Credo il problema nasca
infatti dal fatto che molti uomini, e talvolta anche le donne, pensano
alle relazioni d'amore come a relazioni simbiotiche. Con "relazione
simbiotica" intendo una relazione in cui c'è implicitamente
una coincidenza dell'altro con sé e di sé con sé.
Non è ammesso il "differire" né fuori di sé
né in sé. La situazione di simbiosi si ha quando due esseri
vivono in una relazione talmente stretta e totalizzante da abolire il
sentimento e l'esperienza della differenza. L'effetto che se ne trae è
una situazione protettiva e difensiva, spesso anche un senso di sicurezza
maggiore verso la vita e il mondo. Il costo tuttavia è la rinuncia
alla conoscenza dell'altra persona e di sé, la menomazione di parti
importanti di entrambi. Credo sia a questo genere di situazione che si
riferisce Lea Melandri quando parla di un "sogno di comunione".
In effetti credo anch'io che questo tipo di relazioni simbiotiche o fusionali
possano essere viste come la riproposizione o la continuazione della relazione
prenatale e infantile del figlio con la madre. L'altro soggetto è
vissuto come necessario per la propria nutrizione e sopravvivenza. Senza
soluzione di continuità con il proprio mondo o al limite come appendice
esterna, pur sempre necessaria. Per l'uomo, la donna rappresenta tra l'altro
il rifugio accogliente e comprensivo rispetto alla spietatezza e alla
competitività del mondo "esterno" del lavoro, della burocrazia.
L'altra/o non è percepita/o nella sua autonomia, nella sua alterità
ma come appendice di sé. Il desiderio altrui non esiste se non
come obbligato prolungamento del proprio. In questi termini il rapporto
può essere complementare o simmetrico. Nel primo caso uno dei due
soggetti - in genere la donna - rinuncia a sé per soddisfare l'altro.
Può naturalmente trovare a sua volta una parziale realizzazione
in questo soddisfacimento proiettivo e una gratificazione nell'essere
garanzia del benessere altrui. Nel secondo caso - quello di una relazione
simbiotica simmetrica - è all'opera una dinamica di conformismo
e adattamento reciproco. È un sistema chiuso e complementare in
cui ciascuno gode dell'essere nutrimento e soddisfacimento dell'altro/a.
In entrambi i casi, quello complementare e quello simmetrico, si registra
comunque almeno fino ad un certo punto una situazione di complicità
tra i partner.
La percezione interiore e emotiva è quella del tutto pieno. Non
c'è né ci può essere una percezione forte del negativo,
della frattura, della ferita, dell'assenza, della mancanza, del vuoto.
In questa illusione di trasparenza e di pienezza, si attua la rimozione
del mistero dell'altro/a. Non si è consapevoli dell'esistenza del
mondo interiore della persona che amiamo, di possibili desideri, aspirazioni,
bisogni autonomi e non sospettati. Allo stesso tempo questa mancanza di
riconoscimento dell'altra persona coincide con la perdita anche di una
percezione di se stessi.
Ma in questa condizione, l'esperienza dell'abbandono, della fine della
relazione, può diventare qualcosa di sconvolgente e intollerabile.
Perché con la fine della relazione simbiotica può andare
in frantumi anche il senso di sé e il senso della realtà.
Per questo motivo, piuttosto che riconoscere la propria dipendenza da
una donna, di rimettere in discussione il proprio senso di sé,
piuttosto che rivedere criticamente la propria idea di relazione d'amore,
gli uomini preferiscono rifugiarsi nella violenza. Credo che la paura
di riconoscere la propria dipendenza e l'angoscia prodotta dall'idea di
abbandono siano due aspetti dello stesso analfabetismo relazionale degli
uomini che in questa costante oscillazione tra due estremi produce ansia
di controllo ed episodi di violenza. Il carattere non solo di impotenza
ma anche di intollerabilità di queste situazioni emerge anche dai
numerosi casi di omicidio-suicidio (che si aggira attorno al 28%) diffusi
soprattutto tra gli uomini. Essi mostrano che non c'è solo rabbia
verso le proprie ex partner ma anche il crollo di un rapporto con se stessi
e contemporaneamente l'ammissione dell'incapacità di uscire da
una certa cornice di senso per individuare una forma di esistenza per
sé e per gli altri sulla base delle nuove condizioni. La "motivazione
passionale" che generalmente viene attribuita ai gesti degli uomini
dunque non spiega veramente il vissuto psicologico e relazionale che sottostà
a questi episodi. Da questo punto di vista c'è ancora molta strada
da fare per comprendere psicologicamente che scegliere di aprirsi veramente
all'esperienza dell'incontro con un autentico desiderio di un'altra persona
significa nei fatti essere disponibili ad incontrare anche la negazione,
il disconoscimento e dunque la frustrazione, il dolore, la solitudine.
L'anno scorso le donne della comunità di Diotima hanno proposto
il tema del lavoro del negativo, della forza del negativo. Varrebbe la
pena declinare questo tema anche nelle esperienze delle relazioni affettive
tra uomini e donne. Se c'è un apprendimento in amore, esso passa
anche attraverso l'accettazione e l'integrazione del negativo. Bisogna
imparare a conoscere e a conoscersi, attraversando esperienze d'ogni genere.
Alcune volte sono incontri, slanci, gioie, doni e condivisioni. Ma altre
volte sono invece delusioni, abbandoni, tradimenti, ferite, misteri insondabili.
Nella mia esperienza anche questi ultimi vissuti dolorosi e negativi sono
stati comunque passaggi fondamentali e costitutivi perché mi hanno
messo di fronte all'esperienza del limite, della mia parzialità,
del riconoscimento di altre persone. Tali esperienze del limite ci incrinano
l'illusione di controllo sulla nostra vita, sulle relazioni, sulle persone.
Ci smontano la pretesa di poter disporre di ogni cosa a piacimento. Ci
permettono di dissolvere l'immagine di una relazione senza vuoti e senza
distanze che ci eravamo costruiti. Ci obbligano infine ad ammettere una
soglia di non comprensione, oltre la quale si deve accettare l'altra persona
per come si presenta o per come si nega a noi, senza cercare ulteriori
spiegazioni. Ma tutti questi vissuti non sono esperienze perse, ma tappe
di una maturazione, necessarie per imparare ad amare, per divenire capaci
di intrecciare il proprio desiderio a quello di un'altra persona, senza
soffocare nessuno dei due.
Da questo punto di vista dobbiamo smettere di guardare all'amore semplicemente
come a un affare di sentimenti, o come ad un'esperienza immediata, spontanea.
La spontaneità è semmai il traguardo, non il punto di partenza.
Prima c'è la maturazione, che consiste nell'imparare a deporre
le proprie difese, le proprie sicurezze e le proprie pretese di controllo
che impediscono il riconoscimento e il rispetto di sé e dell'altra
persona. Costruire una civiltà delle relazioni tra uomini e donne
significa allora apprendere reciprocamente ad incontrarsi e a lasciarsi,
ad acconsentire alla vicinanza e alla distanza perché entrambe
le cose - sempre e in ciascun momento - sono insieme condizioni dell'amore.
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